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lunedì 14 ottobre 2024

La responsabilità medica dopo la legge Gelli - Bianco

Abbiamo trattato la recente evoluzione della responsabilità in ambito ospedaliero, evidenziando i vari aspetti contrastanti che hanno caratterizzato la materia negli ultimi decenni.

Le questioni giurisprudenziali sviluppatesi negli anni sono state, di fatto, risolte con la Legge Gelli-Bianco del 2017; norma sulla quale dobbiamo concentrarci, quantomeno, per carpire i principali snodi in tema di responsabilità civile e, anche, di responsabilità penale. 

Anzitutto, in una sorta di “ritorno al passato”, la Legge Gelli-Bianco ha introdotto il principio c.d. “del doppio binario di responsabilità”, qualificando dunque i rapporti afferenti all’ambito sanitario in questi termini: 

1. Per ciò che attiene al rapporto tra il medico intramurario (cioè, dipendente ospedaliero o di struttura privata che svolga la propria attività esclusivamente nella struttura ospedaliera) e il paziente, viene riconosciuta espressamente una responsabilità del medico di tipo extracontrattuale (articolo 7, comma 1°, Legge Gelli-Bianco); 

2. con una sfumatura parzialmente differente, il medico extramurario (cioè, quel medico dipendente ospedaliero o di struttura privata che, però, abbia rinviato il paziente dal proprio studio privato alla struttura sanitaria in cui è inserito) si vede attribuire la responsabilità extracontrattuale (articolo 7, comma 1°, Legge Gelli-Bianco); 

3. alle due figure precedenti viene equiparato il medico non dipendente (o convenzionato, o assegnista, o ricercatore etc.): ci riferiamo, in questa ipotesi, al libero professionista che, certamente, è stato individuato dal paziente, ma abbia svolto la propria attività nella struttura sanitaria (articolo 7, comma 2°, Legge Gelli-Bianco); 

4. da ultimo, soltanto qualora il medico abbia espressamene e direttamente contrattato con il paziente, si ravvisa la responsabilità contrattuale per inadempimento (articolo 7, comma 3°, Legge Gelli-Bianco). 

In buona sostanza, il discrimine sancito dall’articolo 7 è istituito sulla presenza, o meno, di un rapporto contrattuale diretto con il paziente. I risvolti pratici sono, a primo acchito, di immediata evidenza; in sostanza l’obiettivo è stato quello di disincentivare il paziente ad agire direttamente contro il medico strutturato (a cui sarà permesso di operare con maggiore serenità, con un parziale sollievo del ramo assicurativo attinente alla responsabilità civile medica), spingendolo a rivolgersi alla struttura che, di rincalzo, risponderà contrattualmente per il fatto degli ausiliari e dei medici che siano in rapporti con la struttura, salvo il diritto di rivalsa verso i medesimi. 

Quindi, per riepilogare (e riprendere) gli oneri ai quali sono chiamati i pazienti, possiamo dire quanto segue. 

Nella responsabilità contrattuale l’onere è a carico del debitore (la struttura o il medico contraente) che dovrà dimostrare di aver correttamente eseguito la prestazione o, in alternativa, che “l’inadempimento o il ritardo è stato determinato da impossibilità della prestazione derivante da causa a lui non imputabile”; per l’attore sarà sufficiente provare il titolo costituito dalla sussistenza del contratto (“di spedalità”), il danno (che potrà essere per fatto proprio o altrui) ed il nesso causale fra l’inadempimento ed il danno che dovrà essere accertato secondo la logica del “più probabile che non”. 

Diversamente, qualora il paziente offeso decidesse di instaurare un giudizio contro il medico strutturato dovrebbe dare dimostrazione completa di tutti gli elementi costitutivi dell’illecito, compreso l’elemento soggettivo rappresentato dalla condotta colposa o dolosa del convenuto.

Con riguardo all’accertamento del nesso causale (per il quale rinviamo ad un articolo sulla causalità) nell’ambito dell’inadempimento contrattuale, possiamo prendere in considerazione quanto emerso dalle sentenze di “San Martino”, due importantissime sentenze che la Corte di Cassazione ha redatto nel 2019 anche per stringere le maglie, in una sorta di “Decalogo” del dopo Gelli-Bianco. 

La Corte attesta, testualmente, che: "ove sia dedotta la responsabilità contrattuale del sanitario per l’inadempimento della prestazione di diligenza professionale e la lesione del diritto alla salute, è onere del danneggiato provare, anche a mezzo di presunzioni, il nesso di causalità fra l’aggravamento della situazione patologica, o l’insorgenza di nuove patologie, e la condotta del sanitario, mentre è onere della parte debitrice provare, ove il creditore abbia assolto il proprio onere probatorio, che una causa imprevedibile ed inevitabile ha reso impossibile l’esatta esecuzione della prestazione".

Infine, dobbiamo considerare due ulteriori elementi. Da un lato, la Legge Gelli, in coerenza con l’implicito fine deflattivo del contenzioso sanitario, impone al ricorrente (di solito, l’attore-paziente) di effettuare un accertamento tecnico preventivo (c.d. ATP), prima di intentare qualsiasi causa di responsabilità. L’esigenza, oltre a disincentivare il contenzioso, è anche quella di agevolare la controversia ad ogni fine. Nella fase antecedente al giudizio, infatti, può essere che la composizione della controversia avvenga per mezzo dell’offerta di indennizzo elaborata dall’assicurazione del sanitario (o della struttura); nella piena fase del giudizio, invece, è quasi inevitabile che il Giudice si rivolga ad un Consulente Tecnico d’Ufficio, onde accertare in termini tecnici i fatti in punto causalità; ragione per cui, disporre di elementi di valutazione tecnica prima della controversia è un elemento positivo per tutti. 

Venendo, ora, ad alcune note sulla quantificazione dei danni (dei quali, però approfondiremo di più in seguito) Il comma 3° dell’articolo 7 prevede inoltre che il giudice, nei casi in cui sia in discussione la perizia e non una eventuale negligenza o imprudenza, dovrà tenere conto del comportamento del sanitario che si sia attenuto alle Linee guida o alle buone pratiche clinico-assistenziali (di cui accenneremo un poco più avanti), fatte salve le specificità del caso concreto. 

In aggiunta, il comma 4 dell’articolo 7 introduce una limitazione al risarcimento attraverso l’applicazione del modello tabellare operante in tema di sinistri stradali (articoli 138 e 139 codice assicurazioni). 

Chiariti, dunque, i principali aspetti di stampo civilistico, veniamo a richiamare gli aspetti di taglio penalistico. A tale riguardo non vi è pretesa di completezza ed esaustività (si dovrebbe altrimenti ricorrere ad una monografia per esaurire l’argomento), ma quantomeno è opportuno chiarire tutti quegli aspetti di ordine penalistico che sono stati toccati dalla Legge Balduzzi prima, e dalla Legge Gelli poi. 

Le fattispecie più ricorrenti e rilevanti sotto il profilo statistico sono comprese nel capo dedicato ai delitti commessi contro la vita e l’incolumità individuale. 

Nel ripercorrere il percorso diagnostico-terapeutico del medico, può verificarsi che il chirurgo sottoponga il paziente a trattamenti sanitari non autorizzati da parte di quest’ultimo a mezzo del consenso informato. Ci riferiamo, ovviamente, a trattamenti medici consentiti dalle Linee Guida e concretamente adeguati a tutelare la salute del paziente, i quali però non siano stati prospettati a quest’ultimo. 

Di solito, questa condotta è astrattamente riconducibile al delitto di lesioni colpose (articolo 584 codice penale), dal momento che, pur in mancanza di consenso informato, il medico opera istituzionalmente per assolvere a finalità terapeutiche. Difficile sarebbe dimostrare che egli abbia provocato coscientemente (e, quindi, almeno con dolo eventuale) delle mutilazioni al paziente, ovvero si sia prestato a finalità diverse da quella terapeutica. 

Qualora dall’intervento non consentito conseguano delle lesioni mortali per il paziente, secondo la giurisprudenza non si configura il delitto di omicidio preterintenzionale: se, come abbiamo detto prima, il medico agisce con finalità curativa, tale condotta è incompatibile con la prevedibilità dell’evento morte, necessaria per configurare la preterintenzione. 

Veniamo, allora, a due diversi ordini di attività, più ricorrenti nella prassi sanitaria: 

quello del medico consulente che rinvia il paziente al chirurgo (o al chirurgo con la sua équipe)

quella condotta dalla stessa équipe, con medici preposti a specifiche mansioni e altamente settoriali. 

Nelle attività predette, oltre ai consueti canoni di diligenza e prudenza, ricorre il principio per cui ogni medico non può esimersi dal conoscere e valutare l’attività condotta in precedenza o in concomitanza da parte di un altro collega. 

In altre parole, il medico che subentri ad un altro collega, oppure che operi insieme ad un altro collega, deve sempre: 

controllare che le proprie condotte non siano erronee e, se possibile rimediare all’errore, perché su quelle condotte si potrebbero innestare quelle degli altri colleghi; pertanto, non potrà fare affidamento sull’errore degli altri colleghi per occultare, per così dire, il proprio.

deve altresì avvedersi degli eventuali errori grossolani ed evidenti commessi dagli altri colleghi in precedenza o in concomitanza del proprio operato. 

Possiamo dunque dire che tutte le attività ripartite tra medici differenti e in momenti differenti del percorso diagnostico-terapeutico devono convergere verso la salvaguardia della salute del paziente.

Qualora, invece, tutte le attività siano causalmente orientate a ledere la salute (o a provocare la con la morte) del paziente, si configureranno in termini obiettivi il delitto di lesioni colpose o di omicidio colposo, in virtù del principio di equivalenza delle cause. 

A meno che un medico, insomma, non inserisca una condotta del tutto abnorme - tale da far venire meno la precedente situazione di pericolo e da farne scaturire una nuova – tutti i medici che ricoprono la posizione di garanzia sono ritenuti, alla luce dei fatti bruti, responsabili. 

Finora, tuttavia, non ci siamo occupati di una rapida disamina degli elementi psicologici sottesi ai reati. Come abbiamo già detto, è difficile che in ambito medico si ravvisi una condotta dolosa, giacché si ravviserebbe la volontà cosciente del medico di arrecare un danno al paziente. Non a caso, nella Legge Balduzzi e nella Legge Gelli-Bianco i riferimenti più ovvi sono collegati all’elemento psicologico della colpa.

La Legge Balduzzi, in allora, aveva sancito un discrimine tra colpa lieve e colpa grave, depenalizzando de facto la prima e ritenendo rilevante la seconda. Sennonché la Legge Gelli-Bianco, nel confermare all’articolo 6 questo assunto, ha specificato quando si configura la colpa lieve.

In particolare, è stato previsto che, per l’omicidio colposo ovvero le lesioni colpose, si applicano le pene previste 

per la negligenza (ossia l’inosservanza plateale delle leges artis, la condotta vistosamente superficiale etc.); 

per l’imprudenza;

per l’imperizia che sia conseguita dalla inosservanza delle Linee Guida e dalle buone pratiche normativizzate (questo ultimo profilo, peraltro, ha creato non pochi motivi di discussione, dal momento che le Linee Guida elaborate dalla Comunità Scientifica, de facto, etero-regolano le condotte incriminatrici) o quando le Linee Guida e le buone pratiche osservate si discostino palesemente dalla situazione patologica del paziente. 

Nei prossimi interventi, via via, ci concentreremo più da vicino sugli innumerevoli elementi ed aspetti che connotano la responsabilità del medico. 

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