Tra la fase diagnostica e quella terapeutica (e, in generale, ogniqualvolta il paziente debba affrontare un nuovo intervento) si inserisce l’acquisizione del consenso informato.
Il principio si desume indirettamente da diverse disposizioni della nostra Costituzione (articoli 2, 13 e 32 Cost.) e, soprattutto, è sancito a chiare lettere dalla Carta dei diritti fondamentali della Unione Europea, per la quale “nessuno può essere sottoposto ad un trattamento sanitario, se non vi sia una adeguata informazione fornita al soggetto destinatario”.
Ora, è molto lato il riferimento alla adeguatezza, ma non si può pretendere maggiore precisione da una proclamazione di carattere generale e, per di più, rivolta a stati con sistemi sanitari organizzati in modo diverso tra loro.
Tuttavia, passa il principio che l’informazione, per essere adeguata, deve essere quantomeno completa e pertinente rispetto al profilo del paziente che deve intraprendere una cura.
Tale atto è posto a presidio del diritto all’autodeterminazione del paziente e, sul piano concettuale, non va confuso o sovrapposto col diritto alla salute, tanto è vero che la sua omissione è foriera di un’istanza risarcitoria anche (e soprattutto) nei casi in cui l’intervento abbia avuto un esito fausto e positivo.
In questo senso, potremmo dire che l’autonomia decisionale del paziente e la discrezionalità tecnica del medico si saldano dinamicamente nell’acquisizione del consenso informato.
In ogni fase del percorso terapeutico la legge Gelli, all’articolo 1 comma 3°, richiama il diritto da parte di ogni persona (paziente) di conoscere le proprie condizioni di salute e di essere informata in modo completo, aggiornato e comprensibile sui seguenti dati scientifici:
• la diagnosi, corredata di valutazione sia sui rischi che sui benefici volta a precisare le prospettive terapeutiche;
• la prognosi, accompagnata dalla relativa valutazione di carattere terapeutico;
• in caso di rifiuto e/o rinuncia ai trattamenti terapeutici, le alternative percorribili ovvero le conseguenze prevedibili, e non anomali, del decorso patologico.
La facoltà di indicare una persona di fiducia (e.g. il familiare, il congiunto, l’amministratore di sostegno) che esegua il consenso in vece del paziente, come pure la facoltà di opporre un reciso rifiuto a ricevere le informazioni, devono esser registrate nella cartella clinica e nel fascicolo sanitario elettronico.
La circostanza che il paziente sia reso continuamente edotto dei rischi e dei benefici insiti nel trattamento è di tale importanza che, in sua mancanza (o nel caso della sua incompletezza), l’attività del medico è illecita, a meno che non sia stata imposta dalla legge (TSO) o necessitata da motivo di pressante urgenza.
La relazione tra il medico e il paziente, in questa veste, non deve (o, meglio, non dovrebbe) subire una forte spersonalizzazione.
Eppure, molto spesso il medico attua la c.d. medicina difensiva: eroga, cioè, l’informativa in modo standardizzato e adottando automatismi di condotta, al solo ed evidente fine di cautelarsi dalla maggior parte delle controversie legali.
Per contro, altrettanto spesso il paziente pretende la c.d. medicina dei desideri, orizzonte aperto dal progresso nella tecnica sanitaria: questa prospettiva, per esempio, è nota nella medicina estetica. Il paziente coltiva un intimo desiderio di modificazione esteriore; desiderio collegato ad un disagio psichico che rientra nel più ampio concetto di salute, ma è ampiamente soggettivo.
Il trait d’union tra due esigenze così astrattamente distanti si attua per mezzo del principio, assodato in giurisprudenza, per il quale il consenso non può essere presunto o tacito, ma deve essere espresso in modo chiaro, specifico ed effettivo (vedi qui).
È comunque assodato che la libertà di scelta del paziente, ove sia lesa da un’omissione di informazione, è fonte autonoma di responsabilità del medico. Quand’anche il trattamento terapeutico sia favorevole e curativo (e quindi non ne sia conseguito un danno biologico), ormai è proprio l’autodeterminazione del paziente a costituire fonte autonoma di risarcimento del danno, che vi sia stato o meno un aggravamento della sua condizione patologica.
Il dovere informativo del medico è riconducibile al contratto: quello di prestazione d’opera professionale se il paziente si è interfacciato con lo specialista al di fuori della struttura (extramonenia); quello di spedalità se il paziente è stato affidato alla struttura da parte dello specialista inserito nella struttura (intramoenia) o da parte del medico di base.
Due sono gli argomenti che militano a favore di questa classificazione.
(1) In primo luogo, il dovere di informazione rientra tra gli obblighi di fare, che, di solito, sono assunti da parte della struttura e che vengono assolti da parte dei medici. Si configurerebbe un problema di ordine logico se l’informativa, un atto di per sé positivo, fosse inserita all’interno di un obbligo di astensione generale che, invece, costituisce il presupposto della responsabilità aquiliana.
(2) In secondo luogo, la legge Gelli qualifica come contrattuale il rapporto paziente-struttura o medico-paziente, qualora quest’ultimo sia stato preceduto dal contratto. Statisticamente, l’informativa si inserisce proprio nell’alveo di queste due tipologie di rapporti, dal momento che nel caso di un trattamento sanitario obbligatorio o necessitato da circostanze di fatto nemmeno si configura l’obbligo dell’informativa.
Di là dalla qualificazione giuridica dell’informativa, tra la fase diagnostica e quella terapeutica (e, comunque, in ogni circostanza del rapporto terapeutico non connotata da eccezionalità e urgenza dell’intervento) si inserisce il momento dell’acquisizione dell’informazione: la sua omissione dà luogo a due diverse tipologie di danni:
a. se il paziente fosse stato correttamente informato dal medico o dalla struttura, allora avrebbe rifiutato di sottoporsi al trattamento terapeutico. Invece, a causa del deficit informativo, ha subito delle conseguenze invalidanti. Rileva la categoria del danno alla salute (sub specie, il danno biologico nella conduzione delle attività quotidiane e delle relazioni; il danno morale gravante sull’interiorità della persona, categoria desumibile sia dall’art. 2 e 32, co. 2 Costituzione, nonché dall’articolo 7 della carta di Nizza e dal trattato di Lisbona).
b. Appunto, la lesione del diritto all’autodeterminazione: il paziente, a motivo della carenza di informazioni, si è visto ridurre lo spazio per disporre di se stesso in un momento tanto cruciale. Come abbiamo più volte osservato, tale diritto assume un connotato radicalmente distinto da quello all’integrità fisica e psichica.
La Cassazione, nella recente pronuncia numero 28985 dell’11 novembre 2019, ha fornito una casistica, allo stato, abbastanza esaustiva delle situazioni che possono derivare dall’omissione dell’obbligo informativo.
• Il paziente è stato sottoposto, a sua insaputa, ad un intervento al quale avrebbe assentito. L’autodeterminazione non assurge a voce di danno, dal momento che tra la discrezionalità tecnica del medico e l’ambito decisionale del paziente vi sarebbe stata coincidenza. Qualora l’intervento abbia avuto esisto infausto, allora emergerà soltanto la lesione al diritto alla salute, nella sua componente morale e relazionale. Rileverà soltanto la voce di danno relativa alla salute, qualora l’intervento abbia avuto esito infausto.
• Il paziente è stato sottoposto inconsapevolmente ad un intervento al quale non si sarebbe giammai sottoposto, ove fosse stato informato. Emerge, in modo lampante, il danno da lesione al diritto di autodeterminazione del paziente. Che l’intervento abbia avuto esito fausto non scrimina il medico dall’obbligo di risarcire il danno.
• Il paziente, gravato da una precedente condizione invalidante, ha subito un intervento che ne ha peggiorato le condizioni di salute. Se fosse stato informato, avrebbe evitato quell’intervento. In questo quadro, sono state lesi sia il diritto alla salute che il diritto all’autodeterminazione. Il primo verrà quantificato calcolando la differenza tra la misura percentuale della condizione di invalidità derivata dall’intervento e quella della condizione patologica precedente.
Il danno da lesione all’autodeterminazione, invece, rileverà come posta di danno valutata secondo equità pretoria.
• In fase diagnostica, il paziente viene sottoposto ad accertamenti medici poco accurati o attendibili rispetto al proprio caso di specie, senza esser messo a conoscenza dell’accessibilità a mezzi più precisi e calzanti, fosse anche presso un altro medico. Se anche non abbia subito un danno alla salute, ma abbia tratto da questa omissione un patema d’animo, il paziente può contestare la lesione al diritto all’autodeterminazione.
Proprio quest’ultimo caso ci consente di indicare a quali oneri di allegazione e prova soggiace il paziente che incorra nell’inadempimento da parte del medico. Versiamo, come abbiamo spesso evidenziato in questi interventi, in un’ipotesi di responsabilità contrattuale, quantomeno della struttura sanitaria, se non addirittura dello stesso medico.
L’articolo 7 della legge Gelli sembrerebbe aver ricondotto il medico nell’alveo della responsabilità aquiliana, demandando al paziente l’individuazione di uno specifico rapporto contrattuale.
In realtà, è massima ancora comune nella giurisprudenza di legittimità che il contatto tra il medico e il paziente faccia insorgere la responsabilità contrattuale. Con ciò, non vogliamo sostenere che in virtù della vecchia tesi del “contatto sociale” i giudici siano disposti a disapplicare automaticamente l’articolo 7 della legge Gelli; soltanto, che il paziente potrà sostenere, in fase preliminare, che la presunzione di responsabilità aquiliana è superata dalla circostanza che il medico ha interagito col paziente formulando pareri e consulti tecnici, e non come un quisque de populo.
Si configura, dunque, l’onere di allegazione e prova da parte del paziente che, nella fattispecie contrattuale, dovrebbe essere meno gravoso: lesione dell’autodeterminazione, rapporto di causalità giuridica, pregiudizio.
Ovviamente, la mera allegazione della condotta omissiva non costituisce, in sé e di per sé, un danno risarcibile: il paziente è chiamato:
1. sul piano della lesione all’autodeterminazione, ad allegare la valutazione di necessità e opportunità dell’intervento fornita dal medico. Il paziente dovrà altresì dimostrare che, stante una valutazione esaustiva, non avrebbe accondisceso all’intervento oppure che si sarebbe sottoposto a diagnosi più sofisticate ed approfondite.
Il favore verso la ricostruzione del fatto processuale da parte del paziente è tale da ammettere di fornire ogni mezzo di prova, in base al criterio della vicinanza.
2. Sul piano della causalità giuridica, va precisato che il danno deve essere conseguenza immediata e diretta della lesione al diritto all’autodeterminazione del paziente: vale a dire che l’esito infausto dell’intervento deve esser dipeso direttamente dal fatto che la valutazione dei rischi non è stata comunicata al paziente. Evidentemente, la contestazione della condotta arbitraria del medico non può essere assorbita nel profilo della mancanza di consenso.
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