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Fonte: Il Fatto Quotidiano
27 maggio 2019
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Agli italiani non converrebbe
tenersi i contributi dovuti all’Inps e investirli diversamente? La questione è
sentita. Non è affatto rara la recriminazione, in effetti alquanto
qualunquistica, che i versamenti all’Inps sarebbero soldi persi, utilizzabili molto
meglio in altro modo, anche mantenendo la finalità previdenziale. Accantoniamo
pure l’obiezione a monte che la previdenza pubblica dev’essere obbligatoria in
quanto assicurazione sociale, come è evidente a chiunque conosca la materia.
Infatti sono obbligatorie anche le assicurazioni per la disoccupazione, gli
infortuni, l’invalidità ecc.
Entriamo nel merito di
valutazioni numeriche, in particolare prendendo in esame una recente
elaborazione del Centro Studi Impresa Lavoro, che per il quinquennio 2014-2018
confronta i coefficienti di capitalizzazione applicati dall’Inps ai contributi
versati e i rendimenti delle forme di previdenza integrativa, in tutto o
prevalentemente obbligazionarie. I primi risultano dello 0,33% annuo medio,
nettamente inferiori ai secondi al 2,62%, sempre annuo. In effetti ci sarebbe
qualche riserva sulle aggregazioni fatte, ma il problema è un altro.
Soltanto a prima vista il
confronto regge. Solo in apparenza esso dimostra che il privato conviene
rispetto al pubblico. Ugualmente infondata è la tesi che alla fine della vita
lavorativa si avrebbe un montante (capitale accantonato) superiore del 30%.
Tutte tali conclusioni sono viziate da una grave carenza metodologica.
La buona o discreta
redditività della previdenza integrativa negli ultimi anni deriva non dalla
bontà dello strumento e tanto meno da un’inesistente bravura dei gestori, bensì
dalla salita delle quotazioni dei titoli a reddito fisso, a sua volta
conseguenza del calo dei tassi d’interesse. Prendendo per esempio i Btp decennali,
nel quinquennio considerato il loro rendimento nominale è sceso dal 4,1 al
2,7%. Ma è impossibile che tale fenomeno continui a lungo termine. O qualcuno
ipotizza seriamente che fra vent’anni i Btp renderanno in negativo il -2,5%
annuo e fra trent’anni il -5%? In lettere: meno cinque per cento all’anno!
Ci sarebbe poi da aggiungere
che il meccanismo di rivalutazione delle pensioni pubbliche tiene conto
dell’inflazione, nei cui confronti la previdenza privata è del tutto sguarnita.
In ogni caso certe analisi e soprattutto certe conclusioni, anche se formulate
in buona fede, servono solo come strumento di propaganda ingannevole per chi
vende fondi pensione, polizze e altra roba simile.
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