venerdì 11 settembre 2020

Certificati. Strumenti d’investimento spesso rischiosi, meglio comprarli dopo l’emissione

Fonte: Il Fatto Quotdiano
10 agosto 2020
Titoli tossici: così si diceva in Italia al tempo dei crac finanziari di inizio secolo: Argentina, Cirio e Parmalat. Un’espressione che si adatta pienamente a parecchi certificati, chiamati anche all’inglese certificates. Si veda per esempio quello di Bnp Paribas, ma collocato in Italia, indicizzato all’azione tedesca Wirecard, codice NL0014790628. Emesso a fine aprile a 100 per la serie Airbag Cash Collect, dopo tre mesi valeva già zero e così uno non ci pensa più. Un airbag totalmente inutile. Per fortuna Vincenzo Somma direttore di Altroconsumo Finanza dice che "non si tratta di strumenti molto pericolosi", altrimenti chissà cosa sarebbe capitato.

Sfornati in continuazione e molto spinti da alcuni anni da banche e promotori, sono titoli sintetici, costruiti cioè a tavolino impacchettando insieme più componenti. In genere un’obbligazione a cedola nulla e una o più scommesse (cioè opzioni) su indici di Borsa o azioni. Già così uno intuisce che è roba un po’ complicata. Ma può essere molto complicata, come con l’ultima batteria di certificati “worst of” di Unicredit.


Le vicende dell’investimento dipendono dall’andamento di due o tre azioni e in particolare da quella che va peggio nell’ambito per esempio di Eni, Banca Intesa e Generali oppure di Tenaris e Prysmian. Qui basta che alla scadenza dopo tre anni una di esse abbia perso più del 30%, perché il rimborso del certificato venga decurtato nella stessa misura. Inoltre, come sono stati obbligati a scrivere nel prospetto: “L’investitore è esposto al rischio di perdita anche totale del capitale investito”. Né si tratta di un’ipotesi puramente teorica, come si è visto all’inizio.

Quanto è probabile che uno ci rimetta? La risposta tecnico-scientifica più sincera a tale domanda è: “Boh!”. Non esiste infatti nessun criterio obiettivo per valutare in modo affidabile un tale rischio.

A non rischiare nulla sono quelli che stanno dall’altra parte, cioè emittente, collocatore e venditore del prodotto, che si spartiscono anche un 4-5%, ovviamente scaricato sulle spalle del risparmiatore. A loro un certificato rende su base annua grosso modo come un fondo comune, senza più praticamente nessun lavoro e senza il rischio di riscatti.

Come per la previdenza integrativa, anche per i certificati ipotetici vantaggi fiscali sono lo specchietto per le allodole che aiuta a rifilare prodotti opachi e rischiosi.

Ma se di regola qualunque certificato proposto da banche e sedicenti consulenti è da rifiutare, ciò non è sempre vero per quelli in circolazione, già emessi e trattati in Borsa o su altri mercati. Per cominciare è frequentissimo che appena quotato un certificato scenda di prezzo, perché non comprende più il ricarico del venditore. Nell’universo dei certificati già in circolazione c’è spazio per un consulente competente per individuare e indicare opportunità di investimento. Certo che è più difficile che consigliare beotamente i soliti Etf.

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