Attraverso comportamenti superficiali e non responsabili si corre il rischio di incorrere nella condotta punita all'art. 595 c.p., cioè il reato di diffamazione, diventato oramai costante oggetto di accertamento all’interno delle aule di giustizia.
Cosa si intende per diffamazione?
Tale fattispecie criminosa è disciplinata dall’art. 595 c.p., il quale statuisce che “chiunque, fuori dei casi indicati nell'articolo precedente, comunicando con più persone, offende l'altrui reputazione, è punito con la reclusione fino a un anno o con la multa fino a € 1.032”.
Tale disposizione di legge è volta a tutelare la reputazione della persona intesa, quale bene costituzionalmente protetto, come la considerazione che il mondo esterno ha del soggetto che si ritiene offeso.
La condotta penalmente rilevante si sostanzia nell’offendere la reputazione altrui davanti ad una molteplicità di persone ed in assenza della persona offesa nei confronti dei quali viene pronunciata l’espressione diffamatoria.
Ai fini della configurazione della fattispecie in esame, devono sussistere determinati requisiti:
1. offesa dell’altrui reputazione, consistendo nell’utilizzo di parole volte a ledere la reputazione altrui;
2. assenza della persona offesa, intendendosi come l’impossibilità che la persona offesa possa percepire l’offesa;
3. presenza di almeno due persone, diverse dal soggetto agente e dalla persona offesa, che siano in grado di percepire l’addebito diffamatorio a danno della vittima.
Per la configurabilità del delitto di diffamazione è sufficiente il c.d. dolo generico, cioè la volontà dell’autore del reato di adoperare espressioni offensive con la consapevolezza che, nello screditare la persona diffamata, ne possa derivare un danno all’altrui reputazione.
Esempi di diffamazione:
a) dare del ladro o del mafioso a qualcuno in sua assenza e comunicando verbalmente con più persone senza provare la veridicità delle proprie affermazioni;
b) paragonare una donna a Monica Lewinski che per “meriti particolari” si è guadagnata una popolarità globale (Cass. Pen. n. 44887 del 2008);
c) l’insegnante che, in assenza dello studente, lo denigra davanti alla classe dandogli della “bestia” e che “dev’essere curato dallo psicologo” (Cass. Pen. n. 9288 del 2009);
Naturalmente non tutti gli insulti possono integrare il reato in esame infatti, ad esempio, la Cassazione ha stabilito che dare del “coglione” inteso nel suo significato di ingenuo o sprovveduto non costituisce reato di diffamazione, salvo non gli sia attribuito una valenza prettamente dispregiativa (Cass. Pen. n. 46488 del 2014).
Interessante è il limite del diritto di cronaca entro il quale non può operare il reato di diffamazione e che abbiamo trattato in altro contributo presente nel blog (clicca qui):
Quando si ha la diffamazione a mezzo social network?
Come già accennato sopra, il reato di diffamazione può essere integrato anche attraverso l’utilizzo dei vari social network.
In questo caso l’utilizzo di una piattaforma online costituisce una circostanza aggravante, come ben delineato dal comma 3 della norma suindicata che testualmente recita: “se l’offesa è recata col mezzo della stampa o con qualsiasi altro mezzo di pubblicità, ovvero in atto pubblico, la pena è della reclusione da sei mesi a tre anni o della multa non inferiore a € 516”.
A conferma di quanto detto, la giurisprudenza di legittimità afferma espressamente che la diffusione di un messaggio diffamatorio attraverso l’uso di una bacheca “Facebook” integra un’ipotesi di diffamazione aggravata, in quanto potenzialmente capace di raggiungere un numero indeterminato di persone (Corte di Cass., Sez. V, sentenza n. 8328 del 1° marzo 2016).
L’utente deve, quindi, porre particolare attenzione a quello che posta sui social network e deve essere informato, scopo primario di questo articolo, delle singole situazioni che si possono verificare:
• post diffamatorio pubblicato sulla propria bacheca:
nel caso in cui pubblichi frasi, video o immagini a contenuto diffamatorio risponderà della pena prevista dall’art. 595, comma 3 ossia reclusione da sei mesi a tre anni o multa di euro 516,00.
• post diffamatorio pubblicato immediatamente cancellato:
il post incriminato cancellato subito dopo la sua cancellazione non deve far indurre l’autore dello stesso di essersela cavata, poiché potrebbe raggiungere un numero indefinito di persone in un lasso di tempo brevissimo.
• diffamazione su un gruppo “segreto” Facebook:
il gruppo Facebook chiuso, sebbene non visibile ai non ammessi, è ritenuto al pari della bacheca pubblica e può essere quindi utilizzato dagli utenti in ogni tempo e luogo.
In questa situazione potrebbe ritenersi più difficile che il messaggio diffamatorio sia contestuale a tutti i membri del gruppo chiuso, ma bisogna ricordarsi che resta memorizzato in bacheca.
• assenza dell’indicazione del nome della persona diffamata:
molti utenti ritengono di farla franca postando contenuti diffamatori omettendo di indicare specificamente il nome della persona offesa.
In realtà, secondo la giurisprudenza prevalente, l’individuazione della persona può avvenire anche attraverso altri indici, infatti, è possibile offendere un determinato soggetto senza farne il nome, ma semplicemente menzionando fatti o circostanze che riconducono inequivocabilmente a quella stessa persona.
In conclusione, occorre prestare molta attenzione a quando si scrive/commenta qualcosa in rete, ed in particolare nei gruppi sociali, in quanto la propria azione non rimane del tutto esente da conseguenze penali, non essendo internet così estraneo alle norme che regolano la vita quotidiana.
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