lunedì 9 dicembre 2024

Errore del medico e collegamento con il danno

Uno degli aspetti centrali che devono essere affrontati in materia di responsabilità medica è il collegamento esistente tra l'errore del medico e il danno subito dal paziente.

E' evidente che il professionista deve essere chiamato a pagare per i danni subiti dal paziente, solo laddove questi ultimi siano conseguenti alla condotta tenuta dal medico, in altre parole deve essere provato il nesso di causalità.

Quest'ultimo, oltre ad essere un elemento strutturale dell’illecito e una componente imprescindibile nei reati ad evento (giuridico o naturalistico), costituisce, nell’ambito della responsabilità sanitaria in genere, il vero e proprio punto di equilibrio (“l’ago della bilancia”) tra la posizione del paziente e quella del medico. 

Né il medico, né il personale sanitario - e né di rimando la struttura ospedaliera - possono essere tenuti responsabili se non sussiste il rapporto di causalità tra la condotta illecita e gli effetti dannosi. 

Dunque, la causalità è un elemento oggettivo posizionato tra il comportamento posto in essere dal medico (sia questo qualificato nei termini di un inadempimento o di un fatto illecito) e l’evento lesivo di cui si duole il paziente. Questo è vero anche per gli interventi c.d. inutili, cioè quelli che il medico dispiega senza che il paziente recuperi le funzionalità. Quel medico sarà tenuto responsabile soltanto quando l’intervento inutile abbia almeno aggravato le condizioni di salute del paziente (vedi qui). 

Le valutazioni di natura soggettiva non inficiano mai la determinazione del nesso di causalità, poiché vengono affrontate in seconda battuta. I confini della causalità non potrebbero essere meno ampi, poiché, per i fatti commessi materialmente medico (dipendente o intramurario) è spesso chiamato a rispondere, per vincolo obiettivo o di responsabilità presunta, un altro soggetto (la struttura sanitaria pubblica o privata). 

L’argomento impone di sviluppare due temi.

Il primo riguarda quello della ampiezza della responsabilità del medico.

Il secondo, invece, quello sulla selezione delle conseguenze dannose e risarcibili. 

Entriamo in medias res.

L’obbligo risarcitorio, in linea generale, sorge quando sono stati acclarati due nessi di causalità, definiti di causalità materiale e di causalità giuridica. 

Sul piano dell’accertamento eziologico (vale a dire, del “complesso sistematico” di cause), la causalità materiale è da valutarsi in termini di stretta fattualità e concretezza. Il giudice, cioè, deve ricostruire storicamente i fatti allegati e provati dalle parti. Tale categoria è “fiorita” particolarmente nella giurisprudenza penale - e precipuamente nei reati omissivi commessi dal personale medico - essendo esigenza connaturata a quel ramo dell’ordinamento quella di condannare l’imputato di là da ogni ragionevole dubbio: dal che il suo accertamento non può essere basato su criteri meramente probabilistici o statistici (di coincidenza tra classi di condotte e classi di eventi) bensì sul criterio dell’aderenza al caso concreto, sorretto dall’alta credibilità logica. 

Le leggi statistiche sono necessarie ma sono pur sempre strumentali rispetto al raggiungimento del giudizio di probabilità logica. 

In quella sede, a partire dalla sentenza Franzese, ciò che è contato è la “certezza processuale”: ovvero il poter ritenere - con “elevato grado di credibilità razionale” - che la legge statistica trovi applicazione anche nel caso oggetto di giudizio. 

Per compiere tale verifica il giudice penale deve giungere ad escludere i differenti fattori causali alternativi che possano aver cagionato l’evento lesivo qui ed ora verificatosi. Tacciamo, in questa sede, del problema atavico ed irrisolto dell’incertezza della legge scientifica di copertura, quando il giudice non può fare appello ad una legge che, almeno in forma astratta, illustri il decorso causale e nemmeno può affermare che esistono decorsi causali alternativi e, applicando a rigore i principi contenuti nella sentenza Franzese, dovrebbe dubitare radicalmente della legge scientifica di copertura e assolvere sempre l’imputato. 

In sede civilistica, invece, si è pervenuti ad un modello assai meno garantista di quello descritto sopra: modello, poiché sono diverse le esigenze sottese a questo ramo dell’ordinamento. Ci si “accontenta”, difatti, di raccogliere determinati indizi (ovviamente, indizi gravi, precisi e concordanti) e, sulla base degli stessi, di stabilire che è “più probabile che non” che la condotta abbia cagionato quell’evento. 

Ovviamente, l’accertamento in base al criterio del “più probabile che non” risulta più semplice e lineare nei giudizi di causalità commissiva, purché tra il precedente (la condotta del medico) e il conseguente (il danno-evento) sia possibile tracciare una sequenza temporale statisticamente regolare e statisticamente comprovata. 

I giudizi di causalità omissiva, invece, sono più difficili da gestire, poiché impongono di rispondere a due oneri. Il primo impone di individuare la regola cautelare che si assume violata da parte del medico; il secondo impone di “fare finta” che il medico abbia rispettato la regola cautelare (prima ipotesi controfattuale) e di stabilire, col criterio del “più probabile che non”, se il danno-evento si sarebbe verificato lo stesso, oppure no (seconda ipotesi controfattuale). 

In ambedue le tipologie di giudizi, per interrompere il nesso causale tra condotta ed evento, talora si valorizzano i fattori naturali concorrenti e non legati alla condotta del medico, che abbiano ineluttabilmente aggravato la condizione del paziente o ne abbiano provocato il decesso, purché queste cause patologiche siano cause efficienti del tutto preminenti e assorbenti rispetto alla condotta del medico.

A questa stregua, si può affermare che nel nostro ordinamento si ricorre alla c.d. concezione multifattoriale, volta cioè ad individuare, rispetto all’evento di danno, tutte le concause efficienti ascrivibili ai medici, ed escludendo invece il rilievo delle concause efficienti di origine esterna e naturale (patologie pregresse e situazioni patologiche non determinanti, disabilità conclamate etc.). E, a tale riguardo, ogni condotta colposa che si distribuisca verticalmente (si pensi al caso del trasferimento da un reparto all’altro) o orizzontalmente (si pensi all’interno della équipe chirurgica) permane come concausa efficiente dell’evento, senza che la condotta dell’uno possa escludere il contributo dell’altra nella causazione dell’evento. Tipico caso di scuola è l’attività di équipe interdisciplinare, nella quale ogni membro, oltre a dover osservare le proprie regole cautelari, deve farsi carico dei rischi connessi agli errori fatti dagli altri. Purché questi errori, ovviamente, siano riconoscibili e non implichino un sapere settoriale e specialistico che non rientra nelle loro mansioni, ogni operatore deve fare emergere l’anomalia in cui si è imbattuto, segnalandola al capo-équipe.

Il principale nodo problematico presentato dalla causalità materiale riguarda soprattutto i giudizi di responsabilità aquiliana, i quali sono tornati alla ribalta dopo il revirement impresso dalla Legge Bianco-Gelli (precisamente, l’articolo 7, comma 3). Non sfugge, infatti, che in questa tipologia di giudizi l’onere della prova di tutti i fatti costitutivi (condotta, nesso di causalità, evento di danno e conseguenza di danno), ed in particolar modo del nesso di causalità, incombe “ufficialmente” sul paziente. Ove il danneggiato abbia assolto a tale onere, spetterà al medico dimostrare i fatti impeditivi del nesso di causalità, introducendo la causa esterna non prevedibile ed evitabile con la diligenza ordinaria. 

La dimostrazione del nesso materiale, in base agli ordinari criteri di distribuzione della prova nei giudizi di responsabilità extracontrattuale, risulta particolarmente gravosa per il paziente, soggetto al quale è solitamente preclusa la vicinanza ai relativi mezzi di prova; ragione per la quale è diffuso un orientamento giurisprudenziale (un “escamotage”, potremmo dire) per il quale ogni intervento medico di routine, di per sé, produce risultati favorevoli nell’ampia maggioranza dei casi. L’intervento qualificato come routinario è più probabile che produca risultati favorevoli, che non il contrario; si può allora dedurre e presumere, al contrario, che, ove produca effetti dannosi, questi siano causalmente riconducibili all’operato del medico. Si assiste, in questo modo, ad una inversione dell’onere della prova, che impone al professionista di dimostrare che il nesso di causalità è stato “reciso” da un evento esterno, anomalo ed imprevedibile in base alle leggi scientifiche adottate in quel momento. 

Ciò posto, viene in risalto la categoria del nesso di causalità giuridica, poiché non è sufficiente accertare gli eventi di danno; occorre anche stabilire quali concreti pregiudizi abbiano riversato sulla sfera giuridica del paziente. 

Per meglio comprendere questa necessità, occorre ricordare che una norma cardine dell’ordinamento, l’articolo 1223 codice civile, impone di selezionare tutti i danni immediati e diretti che siano conseguiti dall’evento lesivo. 

Il rapporto di immediatezza tra l’evento e le conseguenze di danno è sorretto, a propria volta, da un nesso di causalità, le cui maglie sono definite dal principio della causalità adeguata. In altre parole, non tutti gli eventi di danno sono idonei a produrre conseguenze dannose, bensì soltanto quegli eventi che producono effetti ordinari e tipici nella media percezione. A questa stregua, la conseguenza dannosa può estendersi in modo particolare, comprendendo anche conseguenze nella sfera giuridica di terzi in rapporti col paziente, purché queste non siano del tutto astratte e inverosimili. 

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