lunedì 2 dicembre 2024

Struttura sanitaria: quali obblighi, quali doveri e quale responsabilità

Nei nostri precedenti post che abbiamo dedicato la nostra attenzione verso i doveri e le responsabilità che ricadono sul medico nel caso di errore che ha cagionato un danno al paziente.

Questo nostro intervento, invece, è destinato a ripercorrere, sia pure per sommi capi, il regime di responsabilità applicabile alle strutture sanitarie, siano esse di natura pubblica ovvero privata, nei confronti dell’utente del servizio sanitario; ad ultimo, si verificherà se, e a quali condizioni, è ipotizzabile - nell’alveo del rapporto tra l’utente-consumatore e il professionista - comprendere alcune delle più frequenti clausole limitative della responsabilità addotte dalle strutture sanitarie tra quelle vessatorie e, quindi, inefficaci.

A livello generale e di principio sappiamo già che la salute è un bene costituzionalmente protetto, presidiato dall’articolo 3 della Costituzione; e, pure, che gli utenti non dovrebbero subire delle limitazioni di sorta nel risarcimento del danno da parte delle strutture, a nulla rilevando che siano di natura pubblica o privata. 

Tale principio costituzionale, assodato nella nostra giurisprudenza, è stato altresì normativizzato nella Legge Gelli, avendo essa sancito che "a struttura sanitaria o sociosanitaria pubblica o privata che, nell’adempimento della propria obbligazione, si avvalga dell’opera di esercenti la professione sanitaria, anche se scelti dal paziente e ancorché non dipendenti della struttura stessa, risponde, ai sensi degli articoli 1218 e 1228 del codice civile, delle loro condotte dolose o colpose.".

Nel dettato normativo è dunque implicito che la natura privata o pubblica dell’ente non può incidere sui livelli di tutela da garantire nei riguardi del paziente, che devono assumere il connotato della omogeneità di trattamento; così pure la responsabilità contrattuale, benché nel contatto tra il paziente e la struttura non possa sempre dirsi che vi sia una specifica pattuizione contrattuale, è estesa al fatto illecito degli ausiliari che operano, quantomeno, in rapporto di occasionalità necessaria con la struttura. 

D’altro canto, dobbiamo considerare che l’ASL è tenuta, ex lege, il servizio di medicina generale, vuoi attraverso i propri dipendenti, vuoi attraverso i professionisti convenzionati, rimanendo debitrice per le prestazioni di propria spettanza verso l’utenza, nei limiti dei livelli generali di assistenza medico sanitaria. Questo significa che la natura privatistica della struttura che eroga le prestazioni non consente di assorbire il rapporto nell’alveo della piena autonomia privata; e, d’altro canto, un riflesso di questa considerazione si osserva nell’inapplicabilità, per le prestazioni erogate dalle strutture in regime di convenzione con l’ASL, della disciplina consumeristica, atteso che questi enti operano, in maniera prevalente, quali soggetti sprovvisti di fine istituzionale di lucro. Infatti, in questo caso è l’ASL, e non la struttura, ad accollarsi il rischio di impresa nella gestione del servizio di medicina generale in modo diretto oppure attraverso convenzioni con i professionisti del territorio. 

Un diverso ordine di considerazioni vale, invece, per l’attività condotta dal medico “intramoenia”: essa si sostanzia, come già sappiamo, nell’espletamento, da parte del medico che opera oltre il proprio orario di servizio, di prestazioni aggiuntive rispetto a quelle garantite dai LEA, ed esplicitamente al di fuori della copertura del Servizio Sanitario Nazionale. 

A tale riguardo, gli estensori della Legge Gelli hanno considerato che la prestazione intramuraria è necessariamente inserita all’interno della struttura sanitaria, la quale tra l’altro compartecipa con il professionista dei fini aziendali; resta dunque ferma la responsabilità dell’ente per i danni occorsi all’utente, a nulla rilevando il concreto atteggiarsi dei rapporti tra il paziente e il medico e, di rimando, la struttura

Ora, è fuor di dubbio che le categorie appena ripercorse sono il frutto di una disciplina tanto iperprotettiva nei confronti del paziente quanto semplicistica sotto il profilo tecnico e normativo. Il legislatore, infatti, non ha tenuto conto del principio, immanente al nostro ordinamento civilistico, per il quale la responsabilità civile discende dalla violazione di una delle tre fonti delle obbligazioni: il contratto, il fatto illecito, l’altro fatto o atto produttivo di obbligazioni. La responsabilità sarà contrattuale quando la fonte delle obbligazioni è il contratto che si assume inadempiuto; sarà extracontrattuale se discende dal fatto illecito. 

Invece, la Legge Gelli ha inteso predeterminare, in modo rigido e schematico, lo statuto giuridico degli operatori istituzionali (il medico, la struttura) e ha ricondotto a questi, a prescindere dalla fonte dell’obbligazione, il regime di responsabilità a sua volta predeterminato: extracontrattuale per il medico; contrattuale per la struttura. 

Questa bipartizione rigida e, oseremmo dire, “draconiana” di cui abbiamo appena discusso, è stata edulcorata attraverso l’eccezione per la quale è pur sempre "fatta salva la diversa volontà delle parti". Tale clausola è finalizzata ad armonizzare e comprendere, nel nostro ordinamento, anche i rapporti tra medico e paziente, da un lato, e utente e struttura dall’altro, che sono compresi in contratti che attingono da distinte tipologie e cause, ma che hanno pur sempre, come fine implicito, la cura del paziente. 

In queste tipologie di rapporti è frequente l’introduzione di patti di preventivo esonero della responsabilità. Anzi, le strutture assistenziali, pur avendo un rapporto di occasionalità necessaria col medico libero-professionista, spesso oppongono al paziente una delimitazione preventiva della responsabilità contrattuale, restringendo l’oggetto dell’obbligazione alle sole attività di carattere alberghiero e senza alcun riguardo per il fatto illecito dei medici o degli ausiliari, sebbene questi operino - si ribadisce - quantomeno in rapporto di occasionalità necessaria con l’ente. 

Ora, il patto di esonero preventivo della responsabilità non è indiscriminato e privo di limiti legali. Un conto è delimitare l’oggetto dell’obbligazione al fine di predeterminare l’attività istituzionale per scopi conformi alla causa del contratto; altro conto ancora è escludere a priori, in modo ampio e indiscriminato, la responsabilità del contraente, intaccando la causa del contratto.

A tale riguardo, va richiamata la disposizione di cui all’articolo 1229 codice civile (valevole anche in altri settori della responsabilità civile: pensiamo alle clausole assicurative che delimitano in blocco la responsabilità dell’assicuratore sotto il pretesto di una precisazione dell’oggetto), la quale colpisce con la nullità, a meno che non siano state specificamente approvate per iscritto, i patti che escludono la responsabilità del debitore "per dolo o colpa grave" ovvero - ed è il caso che più ci interessa - "per i casi in cui il fatto del debitore o dei suoi ausiliari costituisca violazione di obblighi derivanti da norme di ordine pubblico". 

Ora, l’inserimento di una clausola limitativa della responsabilità all’interno del contratto di spedalità, figura contrattuale atipica ma riconosciuta dalla nostra giurisprudenza, potrebbe incorrere in questo divieto. Infatti, va ricordato che l’obbligazione dedotta in questa tipologia di contratto comprende la finalità di cura; l’ente, ponendosi in rapporto di occasionalità con l’ausiliario che espleta la prestazione medica (in assenza della quale nemmeno espleterebbe le proprie prestazioni), non può esimersi dal garantire il paziente dal fatto dell’ausiliario, tanto più che alle strutture sanitarie è fatto obbligo, direttamente dalla Costituzione, di tutelare la salute del paziente. 

Questo aspetto può essere compreso anche sotto un altro angolo visuale: quello del medico. Se il medico libero-professionista si sobbarca su di sé l’intera obbligazione di cura, con tutti gli annessi e i connessi, allora andrebbe posto nelle effettive condizioni di scegliere, in tutta autonomia, la propria équipe e di organizzare i mezzi tecnici della struttura al fine di prevenire i rischi prevedibili ed evitabili. Tale condizione, però, si verifica quando è la struttura ad avvalersi del medico (pensiamo, ad esempio, al direttore di una struttura privata, che è anche datore di lavoro); non anche quando è il medico ad appoggiarsi su un’altra struttura (e, aggiungiamo, ad adeguarsi alle condizioni dettate da quest’ultima). Lo squilibrio dei rapporti emerge in tutta la sua evidenza: non può essere richiesto al medico di rispondere, sul piano formale, dell’obbligazione di cura senza che questi abbia il potere di delineare la prestazione professionale. L’elemento decisivo per la qualificazione della responsabilità del medico, da un lato, e della struttura, dall’altro, andrebbe rinvenuto, allora, nel ruolo di intermediazione svolto dalla struttura nella quale si inserisce l’attività del medico, poiché questi, a meno che non sia anche il dominus dell’azienda, è inserito in un contesto organizzato e normativizzato dagli altri. 

Tra l’altro, la casa di cura o l’ospedale che ospitano i pazienti in vista delle prestazioni di cura nei propri locali o nella propria sfera materiale hanno tutta la necessità che il medico esegue la propria obbligazione; anzi, detta obbligazione è indispensabile per la struttura sanitaria al fine di adempiere, a propria volta, l’obbligazione assunta verso il paziente. 

A partire da questa ultima posizione, appunto, si può affrontare il secondo ordine di ragioni, sostenendo che la delimitazione preventiva dell’oggetto delle obbligazioni da parte della struttura privata - la quale si avvalga dell’operato del medico di fiducia ma attraverso la propria dotazione strumentale e la propria organizzazione aziendale - integra uno squilibrio degli obblighi che potrebbe incorrere nella inefficacia di cui all’articolo 33 del Codice del consumo.  

Ora, tale argomento è astrattamente percorribile se, e soltanto se, la fonte delle prestazioni complesse che la struttura eroga in favore del paziente è erogata da un ente che opera ai fini strettamente imprenditoriali o professionali. Non si può esulare da tale introduzione, se si riflette sul fatto che la responsabilità contrattuale dell’ente, per come è configurata in area sanitaria, è pur sempre il tipo di responsabilità che discende dall’inadempimento di prestazioni di cura che sono imposte dalla legge. 

Certo, ricordiamo che stiamo riflettendo intorno ad un’ipotesi particolare, ossia quella del medico che, nell’organizzare la prestazione di cura con tutti i suoi annessi e connessi, si rivolge ad un ente (una casa di cura o un ricovero ospedaliero) che eroga servizi supplementari, non necessariamente compresi nel Servizio Sanitario Nazionale. E, sotto questa particolare prospettiva, proseguiamo nel nostro ragionamento. 

A questo riguardo, è imposto che la controparte del consumatore sia un professionista che svolge, in modo preminente e decisivo, la propria prestazione a fine di profitto. Di norma, la posizione professionale non può essere attribuita alle strutture ospedaliere pubbliche o private operanti in regime di convenzione con il servizio sanitario nazionale (e lo abbiamo accennato sopra), giacché queste, normalmente, non operano per fini di profitto. Anzi, le procedure da essi applicate, di solito, comprendono servizi che confluiscono nel Servizio Sanitario Nazionale. 

Diverso è il caso delle strutture private le cui prestazioni siano direttamente addebitate al paziente, in regime privatistico puro e senza alcun collegamento con le prestazioni assicurate o garantite sotto l’egida del S.S.N. In questo caso è possibile accostarsi alla nozione di professionista prevista dal Codice del consumo. 

Veniamo, allora, ad una delle disposizioni che si possono richiamare nell’ipotesi in discussione, l’articolo 33 del Codice del Consumo, valutando se la delimitazione dell’oggetto della prestazione da parte dell’ente (la casa di cura o l’ospedale) non incida, anche, sulla limitazione delle responsabilità per inadempimento a cui è chiamato l’ente medesimo a tutela dei diritti del malato e, quindi, non determini un significativo squilibrio degli obblighi. 

Sono clausole queste, che di norma sono invalide, inopponibili al consumatore e affette da nullità parziale, a meno che non siano state fatte oggetto di una specifica trattativa (vale a dire di una duplice firma sia in calce al contratto, nella parte considerata equivoca per stesura e formulazione, che nell’apposito richiamo, secondo i crismi giurisprudenziali) o non venga dimostrato, in sede giudiziale, che non sono vessatorie.  

La nozione di significativo squilibrio, rispetto alle clausole vessatorie contenute nei contratti tra professionista e consumatore, fa riferimento ad uno squilibrio di carattere giuridico e normativo: si discetta, cioè, sulla distribuzione dei diritti e degli obblighi derivanti dal contratto, e non sull’equilibrio economico che, ovviamente, è rimesso alla determinazione propria dell’autonomia privata. 

Nel caso delle clausole limitative della responsabilità, a fronte di un obbligo imperativo di cura e assistenza del malato ricondotto sia al medico che alla struttura dalla legge (un’endiadi inscindibile), è imprudente argomentare che, col pretesto di precisare l’oggetto del contratto, si possa espungere un gruppo di prestazioni che sono inscindibili nei fatti: il rapporto tra il medico che effettua la prestazione, da un lato, e la casa di cura che, nei propri locali e con la propria organizzazione aziendale, accoglie il medico che effettua la struttura, per di più e spesso sulla base di accordi predeterminati. 

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