La vicenda legata alla negoziazione di prodotti finanziari denominati "MY WAY" da parte di alcuni gruppi bancari italiani è oramai nota, ma merita una particolare menzione la recente sentenza della Corte d'Appello di Lecce (sentenza n. 129/2009), con la quale è stato confermato il principio secondo il quale la banca che non informa correttamente il proprio cliente in merito ai rischi di investimento,è responsabile dei danni sofferti da quest'ultimo.
Il prodotto finanziario in questione veniva usualmente presentato dal funzionario al cliente come una forma di risparmio, alternativa rispetto ad altri strumenti finanziari offerti. In particolare, il dipendente della banca era solito garantire al risparmiatore che "MY WAY" consisteva in un prodotto previdenziale con il quale quest'ultimo poteva, negli anni, veder rivalutato il proprio capitale.
Lo strumento finanziario di cui trattasi permetteva - almeno così erano soliti sostenere i funzionari della banca - al cliente di veder salvaguardato il capitale investito con possibilità, in caso di recesso, di vedere restituita l'intera somma versata, oltre agli interessi maturati.
Il risparmiatore, in forza delle garanzie ricevute dal dipendente della banca, era solito sottoscrivere il piano di finanziamento con il quale egli si impegnava - attraverso il c.d. "piano d'accumulo" - a versare periodicamente alla banca un determinato importo, nella speranza (risultata poi vana) di ricevere, alla scadenza, la somma versata rivalutata dagli interessi nel frattempo maturati.
La Corte di Appello di Lecce ha accertato la reale natura dello strumento finanziario di cui si tratta che era ben altro che un prodotto previdenziale: esso consisteva, infatti, in un meccanismo finanziario complesso, che si nascondeva dietro il presunto piano di finanziamento.
La banca, infatti, concedeva un prestito al proprio cliente, richiedendo a quest'ultimo un rimborso sotto forma di rata comprensiva degli interessi al tasso annuo pari al 6,5%. L'aspetto interessante dell'intera vicenda era rappresentato dal fatto che il contratto disponeva l'obbligo per il cliente di investire la somma ricevuta dalla Banca in prodotti dello stesso istituto di credito.
Tutti i rischi di investimento venivano, quindi, accollati al cliente mentre la Banca riusciva ad ottenere dall'operazione un duplice vantaggio: la collocazione di propri titoli e il guadagno legato agli interessi sul prestito.
Nella vicenda esaminata, la Corte d'Appello di Lecce ha chiarito che gli elementi caratterizzanti il contratto "escludono che l'operazione possa dirsi caratterizzata da una connotazione tipicamente previdenziale, essendo, invece, la stessa caratterizzata da una estrema aleatorietà, da una assoluta incertezza di qualsiasi ragionevole prospettiva di utili. [...] va escluso, pertanto, che l'investimento, come dedotto dalla Banca, "protegga totalmente il capitale investito" o assicuri "significativi montanti previdenziali"".
Il Giudice, in altri termini, ha evidenziato come il prodotto “MY WAY” non presentava caratteri previdenziali e come la banca non fosse legittimata a proporlo come tale.
Ci preme ricordare che il carattere illegittimo della pubblicità inerente il prodotto finanziario di cui si discute era già stato rilevato dall' Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato, la quale si era così espressa rispetto ai messaggi pubblicitari promossi dal Gruppo bancario rispetto a “MY WAY" “Nei messaggi segnalati non si ravvisa alcun elemento in grado di informare correttamente il destinatario degli stessi della necessità di sottoscrivere un contratto di finanziamento per accedere ai due prodotti, come risulta dalle memorie presentate da Banca 121 PF S.p.A. e dalle documentazioni dalla stessa trasmesse. Tale finanziamento non può in alcun modo essere ritenuto accessorio, come sostenuto nelle memorie difensive, in quanto esso rappresenta il presupposto per poter accedere ai due prodotti: esso, alla stregua dei rendimenti dei titoli in cui l'ammontare finanziato viene investito, contribuisce in modo essenziale alla determinazione delle caratteristiche (rendimenti, rischi, costi ed oneri accessori) dei prodotti "121 Performance" e "MyWay".Infine, non rileva ai fini dell'idonea rappresentazione nei due messaggi delle caratteristiche dei prodotti in esame la loro qualificazione quali "piani finanziari", data la generalità di tale espressione e non la idoneità della stessa ad evidenziare ai destinatari dei messaggi la componente di finanziamento.” (Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato – 18 settembre 2003).
La Corte d'Appello di Lecce, nel confermare la condanna della banca, ha giustamente osservato che "l'operazione di investimento, esponendo il [il cliente] a rischi complessivamente elevati, senza alcuna garanzia di rendimenti o di recupero del capitale investito, all'eventualità di pagamento di ulteriori somme nel caso di recesso anticipato, era del tutto inadeguata rispetto al profilo "medio" del [cliente], alle qualità personali dell'odierno appellato, investitore non professionista, e che non risulta che in precedenza avesse effettuato operazioni analoghe o che fosse comunque cosciente di compiere un'operazione notevolmente rischiosa".
In altri termini con la sentenza della Corte di seconde cure di Lecce è stato nuovamente confermato il principio, che Federcontribuenti ritiene assolutamente corretto, secondo il quale è obbligo della banca agire secondo principi di trasparenza e correttezza, specificando al cliente le caratteristiche ed i rischi connessi alla singola operazione di investimento, e nel caso in cui tale dovere venga violato, il danno sofferto dal risparmiatore deve essere considerato conseguenza diretta della condotta dell'intermediario.
tratto da www.federcontribuenti.it in data 7 maggio 2009
Il prodotto finanziario in questione veniva usualmente presentato dal funzionario al cliente come una forma di risparmio, alternativa rispetto ad altri strumenti finanziari offerti. In particolare, il dipendente della banca era solito garantire al risparmiatore che "MY WAY" consisteva in un prodotto previdenziale con il quale quest'ultimo poteva, negli anni, veder rivalutato il proprio capitale.
Lo strumento finanziario di cui trattasi permetteva - almeno così erano soliti sostenere i funzionari della banca - al cliente di veder salvaguardato il capitale investito con possibilità, in caso di recesso, di vedere restituita l'intera somma versata, oltre agli interessi maturati.
Il risparmiatore, in forza delle garanzie ricevute dal dipendente della banca, era solito sottoscrivere il piano di finanziamento con il quale egli si impegnava - attraverso il c.d. "piano d'accumulo" - a versare periodicamente alla banca un determinato importo, nella speranza (risultata poi vana) di ricevere, alla scadenza, la somma versata rivalutata dagli interessi nel frattempo maturati.
La Corte di Appello di Lecce ha accertato la reale natura dello strumento finanziario di cui si tratta che era ben altro che un prodotto previdenziale: esso consisteva, infatti, in un meccanismo finanziario complesso, che si nascondeva dietro il presunto piano di finanziamento.
La banca, infatti, concedeva un prestito al proprio cliente, richiedendo a quest'ultimo un rimborso sotto forma di rata comprensiva degli interessi al tasso annuo pari al 6,5%. L'aspetto interessante dell'intera vicenda era rappresentato dal fatto che il contratto disponeva l'obbligo per il cliente di investire la somma ricevuta dalla Banca in prodotti dello stesso istituto di credito.
Tutti i rischi di investimento venivano, quindi, accollati al cliente mentre la Banca riusciva ad ottenere dall'operazione un duplice vantaggio: la collocazione di propri titoli e il guadagno legato agli interessi sul prestito.
Nella vicenda esaminata, la Corte d'Appello di Lecce ha chiarito che gli elementi caratterizzanti il contratto "escludono che l'operazione possa dirsi caratterizzata da una connotazione tipicamente previdenziale, essendo, invece, la stessa caratterizzata da una estrema aleatorietà, da una assoluta incertezza di qualsiasi ragionevole prospettiva di utili. [...] va escluso, pertanto, che l'investimento, come dedotto dalla Banca, "protegga totalmente il capitale investito" o assicuri "significativi montanti previdenziali"".
Il Giudice, in altri termini, ha evidenziato come il prodotto “MY WAY” non presentava caratteri previdenziali e come la banca non fosse legittimata a proporlo come tale.
Ci preme ricordare che il carattere illegittimo della pubblicità inerente il prodotto finanziario di cui si discute era già stato rilevato dall' Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato, la quale si era così espressa rispetto ai messaggi pubblicitari promossi dal Gruppo bancario rispetto a “MY WAY" “Nei messaggi segnalati non si ravvisa alcun elemento in grado di informare correttamente il destinatario degli stessi della necessità di sottoscrivere un contratto di finanziamento per accedere ai due prodotti, come risulta dalle memorie presentate da Banca 121 PF S.p.A. e dalle documentazioni dalla stessa trasmesse. Tale finanziamento non può in alcun modo essere ritenuto accessorio, come sostenuto nelle memorie difensive, in quanto esso rappresenta il presupposto per poter accedere ai due prodotti: esso, alla stregua dei rendimenti dei titoli in cui l'ammontare finanziato viene investito, contribuisce in modo essenziale alla determinazione delle caratteristiche (rendimenti, rischi, costi ed oneri accessori) dei prodotti "121 Performance" e "MyWay".Infine, non rileva ai fini dell'idonea rappresentazione nei due messaggi delle caratteristiche dei prodotti in esame la loro qualificazione quali "piani finanziari", data la generalità di tale espressione e non la idoneità della stessa ad evidenziare ai destinatari dei messaggi la componente di finanziamento.” (Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato – 18 settembre 2003).
La Corte d'Appello di Lecce, nel confermare la condanna della banca, ha giustamente osservato che "l'operazione di investimento, esponendo il [il cliente] a rischi complessivamente elevati, senza alcuna garanzia di rendimenti o di recupero del capitale investito, all'eventualità di pagamento di ulteriori somme nel caso di recesso anticipato, era del tutto inadeguata rispetto al profilo "medio" del [cliente], alle qualità personali dell'odierno appellato, investitore non professionista, e che non risulta che in precedenza avesse effettuato operazioni analoghe o che fosse comunque cosciente di compiere un'operazione notevolmente rischiosa".
In altri termini con la sentenza della Corte di seconde cure di Lecce è stato nuovamente confermato il principio, che Federcontribuenti ritiene assolutamente corretto, secondo il quale è obbligo della banca agire secondo principi di trasparenza e correttezza, specificando al cliente le caratteristiche ed i rischi connessi alla singola operazione di investimento, e nel caso in cui tale dovere venga violato, il danno sofferto dal risparmiatore deve essere considerato conseguenza diretta della condotta dell'intermediario.
tratto da www.federcontribuenti.it in data 7 maggio 2009
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