domenica 22 maggio 2011

Commissione Tributaria Regione Veneto - L'Agenzia delle Entrate non può rifiutare la richiesta di rimborso della tassa governativa di 12,91 euro

Di recente abbiamo segnalato l'interessante intervento con il quale la CTP del Veneto ha dichiarato illegittimo il silenzio rifiuto all'istanza con la quale il contribuente ha chiesto il rimborso della tassa governativa sugli apparecchi cellulari (vedasi 12,91 € di tassa governativa sul cellulare? per il giudice tributario del Veneto non sono dovuti!).

Di seguito vi proponiamo la sentenza con la quale sempre la CTR Veneto chiarisce le ragioni per le quali il Comune non è tenuto a versare tale tassa, in quanto la pretesa fiscale nasce da una norma, l'art. 21 della Tariffa allegata al D.P.R. n. 641 del 1972, abrogata con l'introduzione del D.Lgs. 253/2003 (art. 3) che ha disposto la liberalizzazione della fornitura di servizi di comunicazione telefonica.





Commiss. Trib. Reg. Veneto Venezia Sez. IV, Sent., 17-02-2011, n. 35


REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA COMMISSIONE TRIBUTARIA REGIONALE DI VENEZIA - MESTRE

QUARTA SEZIONE

Svolgimento del processo

Con ricorso del 31 luglio 2009, i Comuni di XXXX, impugnavano davanti alla Commissione Tributaria Provinciale di Treviso, il silenzio rifiuto dell'Agenzia delle Entrate di Conegliano sul ricorso amministrativo ad essa notificato in data 25 febbraio 2009, con il quale i Comuni avevano chiesto il rimborso di quanto versato, ex art. 21 della Tariffa allegata al D.P.R. n. 641 del 1972, a titolo di tassa di concessione governativa per gli anni 2006-2008.

Precisavano i ricorrenti che era stata versata all'Erario la Tassa di Concessione Governativa per l'impiego di apparecchi terminali (telefoni cellulari in dotazione ai Comuni) per complessivi Euro 86.741,85, di cui Euro 62.096,66 per il Comune di XXX, Euro 3.369,51 per il Comune di XXXX, Euro 9.863,24 per il Comune di XXXX ed Euro 11.412 per il Comune di XXX. I ricorrenti assumevano di aver corrisposto la tassa, tramite il gestore della telefonia mobile, pari ad Euro 12,91 per ogni singola utenza della quale era titolare la P.A., per complessivi Euro 86.741,85 ma che essa non era dovuta perché il nuovo codice delle comunicazioni elettroniche, di cui al decreto legislativo n. 259/2003, all'art. 218 c° 1, lett. a) aveva abrogato l'art. 318 del D.P.R. 29 marzo 1973 n. 156, che costituiva la fonte normativa dell'art. 21 della Tariffa ed era il presupposto oggettivo della TCG sulla telefonia mobile in abbonamento. In particolare, i comuni ricorrenti assumevano:

1) illegittimità del silenzio rifiuto per violazione di legge. Abrogazione della fonte normativa dell'art. 21 della Tariffa allegata al D.P.R. n. 641 del 1972. Abrogazione espressa dell'art. 318 del D.P.R. 156/1975. Abrogazione implicita dell'art. 3 d.l. 151/1991 e dell'art. 3 del D.M. 33/90.

2) Illegittimità del silenzio rifiuto perché fondato su una tassa priva di presupposti. Il contratto di abbonamento telefonico non era un documento sostitutivo della licenza di esercizio.

3) Illegittimità del silenzio rifiuto per abrogazione implicita dell'art. 21 della Tariffa allegata al D.P.R. 641/1972.

4) Illegittimità del silenzio rifiuto impugnato perché fondato su una tassa priva di presupposto. Eccesso di potere.

5) Illegittimità del silenzio rifiuto impugnato per violazione di legge costituzionale. Violazione dell'art. 23 della Costituzione.

6) Illegittimità del silenzio rifiuto impugnato per violazione di legge costituzionale. Articolo 3 della Costituzione.

7) Illegittimità del silenzio rifiuto impugnato per violazione del diritto comunitario. Violazione delle Direttive 97/13/CE e 2002/19/20/21/22/77/CE. Violazione del principio di libera concorrenza e di liberalizzazione delle telecomunicazioni.

Chiedevano all'adita commissione di dichiarare l'illegittimità del silenzio rifiuto, accertando l'indebito di quanto versato, condannando l'Agenzia delle Entrate al rimborso di quanto indebitamente versato. Con interessi e rivalutazioni e con vittoria di spese, diritti ed onorari.

Si costituiva in quella sede l'Agenzia delle Entrate di Collegllano ed eccepiva in via preliminare l'inammissibilità del ricorso collettivo.

Nel merito contestava quanto asserito dai ricorrenti, ribadendo la persistenza dell'art. 21 della Tariffa allegata al D.P.R. 641/1972 che non solo non era stata abrogato ma era stato espressamente citato e richiamato dal legislatore all'art. 1, comma 3, legge n. 244 del 2007.

L'Amministrazione contestava altresì che l'art. 21 potesse ritenersi in contrasto con i principi costituzionale sanciti dagli artt. 3 e 23 della Costituzione.

Concludeva chiedendo il rigetto del ricorso, con rifusione delle spese ed onorari del giudizio.

Con sentenza n. 19/06/2010, la C.T.P. di Treviso respingeva il ricorso, ritenendo la vigenza dell'art. 21 della Tariffa.

Avverso tale decisione proponevano appello i Comuni ricorrenti evidenziando i vizi della sentenza.

Oltre a richiamare i motivi di impugnazione già esposti nel ricorso introduttivo, gli appellanti evidenziavano l'erroneità delle sentenza di primo grado che, per affermare la vigenza dell'art. 21 della tariffa, si era basata sulla legge finanziaria 2008 che, per sua natura, era inidonea ad introdurre tributi.

Assumevano che i giudici di primo grado non avevano inquadrato esattamente l'art. 15 delle Disp. Prel. al Cod. Civ. ed avevano perciò erroneamente escluso l'abrogazione implicita dell'art. 21 della Tariffa.

Peraltro non era stata esattamente considerata l'abrogazione espressa dell'art. 318 del D.P.R. n. 156/73 e l'abrogazione implicita dell'art. 3 del d.l. 141/91 e dell'art. 3 del d.m. 33/90.

La sentenza era erronea nella parte in cui aveva ritenuto l'esistenza della tassa che era priva di presupposto.

Eccepivano la carenza di legittimazione passiva dei Comuni perché, essendo equiparati ai fini fiscali alle Amministrazioni dello Stato erano esonerati dal pagamento della tassa.

Ribadivano, infine, l'illegittimità dell'art. 21 della Tariffa perché in contrasto con la Costituzion Italiana e con le normative comunitarie.

Gli appellanti producevano numerose sentenze di varie C.T.P. favorevoli nonché un'ordinanza della C.T.P. di Tarante di domanda di pronuncia pregiudiziale inoltrata alla Corte di Giustizia dell'Unione Europea.

Concludevano in via pregiudiziale e subordinata chiedendo all'adita C.T.R. di disapplicare la normativa italiana perché in contrasto con quella comunitaria e, nel merito di dichiarare illegittimo il silenzio rifiuto, ordinando all'Amministrazione Finanziaria di provvedere al rimborso di quanto riscosso a titolo di tassa di concessione governativa.

Si costituiva ritualmente l'Agenzia delle Entrate di Treviso, sostenendo la correttezza della decisione dei giudici di primo grado.

La liberalizzazione del settore delle telecomunicazioni non aveva privato gli Stati membri dalle funzioni di regolamentazione e di garante della gestione efficiente delle radiofrequenze, mantenendo quindi in vigore l'art. 21 della Tariffa.

Contrariamente a quanto sostenuto dagli appellanti il sistema delineato dalle norme esistenti non significava che il diritto all'uso dei mezzi di comunicazione rientrava nel patrimonio giuridico di chiunque, ma aveva posto rigorosi obblighi per le imprese che fornivano reti e servizi di comunicazione elettronica, al fine di garantire i diritti inderogabili di libertà delle persone nell'uso dei mezzi di comunicazione elettronica.

L'appellata ribadiva che la vigenza della norma (art. 21 della Tariffa) era stata confermata dal legislatore che l'aveva richiamata nella legge finanziaria del 2008, estendendo ai non udenti le agevolazioni previste per i non vedenti.

Eccepiva che l'asserita violazione del diritto comunitario non poteva essere presa in esame perché non contenuta nell'istanza di rimborso e pertanto, sulla stessa, non si era formato il silenzio rifiuto.

Contestava che esistesse l'esonero dei Comuni dal pagamento della tassa e che l'eccezione in tal senso prospettata dagli appellanti non poteva essere accolta perché formulata per la prima volta in appello.

Concludeva chiedendo in via pregiudiziale l'inammissibilità delle eccezioni formulate dagli appellanti ai n. 6 e 9 dell'appello e, in via principale, per il rigetto dell'appello, dichiarando non dovuti i rimborsi.

Con vittoria di spese, diritti ed onorari di entrambi i giudizi.

All'odierna udienza l'appello era deciso.

Motivi della decisione

L'appello è fondato e merita accoglimento.

Osserva il Collegio che l'appello davanti alla Commissione Tributaria Regionale è rivolto sia ad attuare il principio del doppio grado di giurisdizione sia a consentire al giudice di appello di svolgere le funzioni di giudice di impugnazione - merito.

Compito del giudice d'appello, di regola, non è quello di annullare la sentenza di primo grado, ma di sostituirla riesaminando la fattispecie oggetto del ricorso.

Esiste, pertanto, l'effetto devolutivo dell'appello, in forza del quale la causa decisa in primo grado passa alla piena cognizione del giudice di appello nel rispetto, peraltro, del principio dispositivo e, perciò, nei limiti proposti con l'appello (tantum devolutum quantum appellatimi).

L'esame di questa C.T.R. deve essere portato sul merito in relazione ai principi devolutivi dell'appello che, nella fattispecie, si propone con ampie motivazioni di critica alla sentenza di primo grado.

Il Collegio osserva preliminarmente che, contrariamente a quanto sostenuto dall'Agenzia delle Entrate appellata, sia la normativa comunitaria che l'esonero dei Comuni dal pagamento della tassa costituiscono motivi di doglianza dei Comuni e che nessuna norma delimita il thema decidendum in sede giurisdizionale alle sole questioni indicate nell'istanza di rimborso.

Come è stato osservato con giurisprudenza costante delle C.T.P. e di questa C.T.R. sez. 1, sentenza n. 5/1/2011, si deve accertare se la tariffa n. 21 allegata al D.P.R. 641 del 1972 sia ancora in vigore e possa costituire il presupposto della potestà impositiva della Amministrazione Finanziaria.

Il Collegio ritiene di affermare che il principio guida nell'attività interpretativa delle norme statuali è quello di riferimento alla Costituzione Italiana ed alle normative comunitarie.

Non ritiene necessario quindi esperire la procedura prevista dall'art. 267 del Trattato (ex art. 234) rivolgendo alla Corte di Giustizia domanda di pronuncia pregiudiziale sul contrasto fra l'art. 21 della Tariffa e la Direttiva 2002/20/CE (direttiva autorizzazione), e la Direttiva 2002/77/CE, relativa alla concorrenza nei mercati delle reti e dei servizi di comunicazione elettronica.

Infatti, come affermato costantemente dalla Corte di Giustizia, la normativa comunitaria e quella dei singoli Stati sono integrate in un solo sistema tanto che una condotta che sia conforme ad una norma comunitaria non può trovare ostacolo in una normativa nazionale.

La norma comunitaria che esplica questa efficacia è quella che presenta il carattere di preminenza o di prevalenza, che estende la sua validità nell'ambito comunitario e che abbia un effetto vincolante per tutti gli Stati, le cui autorità non potranno opporre al singolo disposizioni non conformi alla normativa comunitaria.

Assumono perciò particolare rilievo sia le fonti di natura primaria, quali i trattati, che quelle di natura secondaria (regolamenti, direttive).

Nelle originarie previsioni del Trattato solo il regolamento è direttamente applicabile in tutti i suoi elementi mentre la natura self-executing era esclusa per le direttive, che si limitano a vincolare lo Stato quanto allo scopo, lasciandogli autonomia decisionale in ordine alla scelta dei mezzi e delle forme di attuazione.

Tuttavia, nella prassi esplicativa, la distinzione fra regolamenti e direttive si è andata progressivamente attenuando, tanto che spesso alcuni regolamenti, nel disciplinare solo in parte una materia, rimandano al potere normativo delle autorità nazionali.

D'altra parte, la giurisprudenza della Corte di Giustizia tende ad escludere l'efficacia mediata delle direttive, riconoscendone invece effetti diretti nel caso in cui esse siano redatte in termini così chiari e precisi da non lasciare alcun margine di discrezionalità agli Stati membri.

"La possibilità di far valere una direttiva nei confronti degli enti statali è fondata sulla natura cogente attribuita a tale atto dall'art.189 ora 249 CE del Trattato, natura cogente che esiste solo nei confronti dello Stato membro cui la direttiva è rivolta e che mira ad evitare che uno Stato possa trarre vantaggio dalla sua trasgressione del diritto comunitario. Sarebbe infatti inaccettabile che lo Stato al quale il legislatore comunitario prescrive l'adozione di talune norme volte a disciplinare i suoi rapporti, o quelli degli enti statali, con i privati e a riconoscere a questi ultimi il godimento di taluni diritti potesse far valere la mancata esecuzione dei suoi obblighi al fine di privare i singoli di detti diritti". (Sent. 14 luglio 1994, causa C-91/92, Paola Faccini Dori/Recreb srl).

"L'obbligo degli Stati membri, derivante da una direttiva, di conseguire il risultato da questa contemplato, come pure l'obbligo loro imposto dall'art. 5 del Trattato di adottare tutti i provvedimenti generali o particolari atti a garantire l'adempimento di tale obbligo, valgono per tutti gli organi degli Stati membri ivi compresi, nell'ambito di loro competenza, quelli giurisdizionali.

Ne consegue che, nell'applicare il diritto nazionale, a prescindere dal fatto che si tratti di norme precedenti o successive alla direttiva, il giudice nazionale deve interpretare il proprio diritto nazionale quanto più possibile alla luce della lettera e dello scopo della direttiva per conseguire il risultato perseguito da quest'ultima e conformarsi pertanto all'arti89 ora 249 CE, terzo comma, del Trattato. (Sent. 14 luglio 1994 cit.).

Le direttive assumono perciò efficacia self-executing una volta che possano qualificarsi come "direttive dettagliate", all'interno delle varie categorie di direttive formulate dalla dottrina (di integrazione, di liberalizzazione, di armonizzazione, di coordinamento).

Dall'efficacia diretta del diritto comunitario discende per gli Stati membri e per le autorità degli Stati, sia amministrative che giudiziarie, il divieto di frapporre ostacoli alle previsioni comunitarie.

Ne consegue che questa C.T.R. si determina in armonia con i principi di liberalizzazione e di privatizzazione espressi dalle richiamate direttive.

Ripercorrendo sinteticamente l'iter legislativo, il Collegio ritiene di evidenziare che il D.Lgs. n. 259/2003, recante il nuovo Codice delle Telecomunicazioni, abbia innovato il settore delle telecomunicazioni con un processo di privatizzazione che ha comportato il passaggio dallo strumento della concessione di natura pubblicistica a quello contrattuale di natura privatistica.

Con l'art. 3 del D.Lgs. 259/2003, il legislatore ha disposto la liberalizzazione della fornitura di servizi di comunicazione elettrica, essendo di preminente interesse generale, e con l'art. 218 ha abrogato l'art. 318 del D.P.R. 156/73, secondo cui, oggetto della tassazione, sarebbe stato il contratto di abbonamento sostitutivo della licenza e individuato per rivestire il carattere autorizzatorio della licenza. In definitiva, venendo a mancare, contemporaneamente, il regime concessorio e l'art. 318, che costituiva il presupposto della tassazione del contratto di abbonamento, l'imposizione di cui all'art. 21 della Tariffa non risulta più applicabile.

Il Collegio ritiene di precisare che, contrariamente a quanto sostenuto dall'Agenzia delle Entrate, l'art. 21 della Tariffa può senz'altro considerarsi abrogato, ciò in applicazione dell'art. 15 delle disp. preliminari al codice civile che, essendo norma di carattere generale, trova la sua applicazione anche nel campo del diritto tributario.

L'abrogazione, infatti, può discendere dall'incompatibilità tra la nuova disposizione e quella precedente o quando la nuova legge regoli l'intera materia disciplinata dalla legge anteriore.

Nella fattispecie in esame ricorre la seconda ipotesi, perché il passaggio dal regime pubblicistico concessorio a quello privatistico-contrattuale, costituisce una nuova e radicale regolamentazione della materia.

Né, ad inficiare tale argomentazione, può valere la circostanza che il legislatore, nel corpo di una legge finanziaria (la n. 244 del 2007), abbia aggiunto il comma 203 estendendo "e a sordi" i benefici previsti dall'art. 21 della Tariffa, perché ciò non può comportare la reviviscenza di una norma abrogata per tutti, non vedenti e sordi" (il legislatore non usa il termine non udenti).

Ulteriore elemento di valutazione e la richiesta equiparazione ai fini tributari degli Enti locali con le Amministrazioni dello Stato.

In proposito devesi evidenziare che la riformulazione dell'art. 114 della Costituzione Italiana ha posto sullo stesso piano i Comuni, le Province, le Città metropolitane, le Regioni e lo Stato che formano tutti insieme la Repubblica.

Voler considerare esentate solo le amministrazioni statali e non quelle comunali, pone un principio in contrasto con la nuova formulazione dell'art. 114 della Costituzione e come tale va disatteso dal giudice che è tenuto, nelle proprie scelte interpretative, a ricercare quella costituzionalmente orientata.

Anche il T.U.I.R., peraltro, esclude dall'assoggettamento all'imposta sui redditi i Comuni. Infatti il D.Lgs. 30.03.01 n. 165, recante le norme generali sull'ordinamento del lavoro alle dipendenze delle amministrazioni pubbliche, nel secondo comma dell'art. 1 precisa che" Per amministrazioni pubbliche si intendono tutte le amministrazioni dello Stato, ivi compresi... le regioni, le province, i comuni...".

Per le ragioni sopra esposte il silenzio rifiuto impugnato è dichiarato illegittimo e, per l'effetto, l'Amministrazione resistente è dichiarata obbligata al rimborso ai Comuni appellanti di quanto da essi pagato in relazione alla tassa di cui all'art. 21 della Tariffa allegata al D.P.R. n. 641 del 1972 per gli anni 2006-2008.

La complessità della materia oggetto della controversia, induce la Commissione Tributaria Regionale a compensare interamente fra le parti anche le spese del presente giudizio.

[omissis]
fonte: http://www.federcontribuentitrento.it/


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