domenica 4 agosto 2019

Diamanti - esclusa la responsabilità della banca nella vendita di preziosi nella filiale

Chi ha comprato i “diamanti da investimento” o, meglio, delle pietre piazzate con la collaborazione di molte banche come “beni rifugio” al doppio del loro reale valore e per di più con certificati incompleti e falsi, rimarrà deluso dalla sentenza resa dal Tribunale di Milano, la n. 66 dell’8 gennaio 2019

Il giudice milanese, in buona sostanza, è giunto a negare che la banca abbia assunto responsabilità di qualche tipo nel rapporto concluso tra il risparmiatore e le società di settore (tra le note: la ormai fallita Intermarket diamond business (Idb) di Milano  e Diamond private investment di Roma), anche se le vendite dei preziosi avvenivano nei suoi locali. 

Percorriamo, ora, i motivi che hanno spinto il Tribunale a rigettare il rimborso, cogliendo fin da subito che per vincere in giudizio è essenziale saper mettere in luce il ruolo autonomo che le banche assumono in questo tipo vendite (c.d. vendite piramidali).


Abbiamo già visto che tra il 2010 ed il 2015 alcuni istituti bancari – complice anche la formidabile demonizzazione dei risparmiatori italiani che si ostinano a tenere liquidità infruttifera nei propri conti dormienti ) – hanno fattivamente collaborato con alcune società, mettendo a loro disposizione il proprio pacchetto di clienti per proporre l’investimento in diamanti.

È facile, almeno nei fatti, scorgere una commistione di interessi tra la banca e le società di settore per truffare i clienti, ma molto più complesso evidenziarlo nelle aule di giustizia: a nostro parere, la mossa vincente è quella di far risaltare gli accordi commerciali che le banche stabiliscono con le società di settore e, posta questa premessa, contestare sin da subito la responsabilità da contatto sociale (vedi qui).

Tuttavia, così non è stato fatto nel caso che ci occupa, tanto è vero che la difesa del risparmiatore si è limitata a rappresentare alcune circostanze molto indicative, ma non determinanti, come ad esempio la vendita delle pietre all’interno dei locali della banca e per mezzo di suoi promotori, per poi chiedere, per ciò solo, sia l’annullamento del contratto concluso tra il cliente e la società di settore che l’inadempimento contrattuale, oltre che il risarcimento del danno in stretto collegamento.

Giocoforza il giudice, ha stoppato la domanda di risarcimento, peraltro affermando che “non solo le azioni di invalidità o di risoluzione devono essere ritenute infondate, non essendo state intentate nei confronti della controparte contrattuale, ma anche le azioni di natura restitutoria e risarcitoria.
Ciò in quanto le stesse sono inevitabilmente correlate (“per l’effetto”), come da conclusione, alle suddette azioni di natura contrattuale, e non sono state sviluppate in via autonoma, ossia dando risalto al ruolo autonomo di parte convenuta. (...) Mai del resto la posizione di parte convenuta [n.d.r. la banca] è stata specificamente illustrata nell’atto di citazione alla stregua di un terzo rispetto alla parte alienante, e ne è riprova la circostanza che ciò avrebbe comportato uno specifico onere argomentativo, nel senso di chiarire il fondamento sistematico di una responsabilità del terzo in ordine ad un contratto stipulato da altri soggetti”.


In altre parole, nonostante il ruolo della banca sia abbastanza articolato in queste vicende (e il dibattito ne dà atto) la difesa del cliente non è riuscita a sviluppare in modo determinate il ruolo della banca ed in particolare il profilo degli accordi commerciali. 


Di seguito, la sentenza n. 66/2019 del Tribunale di Milano.


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