Visualizzazione post con etichetta cassazione. Mostra tutti i post
Visualizzazione post con etichetta cassazione. Mostra tutti i post

domenica 7 settembre 2025

Alimenti conservati male - conseguenze penali e tutela del consumatore

La recente "vicenda botulino" ci ha portato ad analizzare la questione sotto il profilo giuridico, al fine di comprendere le conseguenze penali che possono colpire il ristoratore in vicende analoghe a quella oggetto della cronaca recente.

Occorre premettere che non è necessario che il cibo avariato finisca nel piatto del consumatore per far scattare la responsabilità penale del professionista e questo principio è stato riaffermato dalla Corte di Cassazione - sezione penale - con la sentenza n. 22632 del 17 giugno 2025, sentenza che torna a mettere al centro il tema della sicurezza alimentare e della responsabilità di chi gestisce esercizi pubblici, quali supermercati, ristoranti e simili.


- Controllo NAS ed accertamento dell'alimento avariato non posto in commercio

Il caso riguarda un controllo dei NAS che ha portato alla scoperta di alimenti in cattivo stato di conservazione nei locali di un esercente. 

Quegli alimenti — va detto — non erano ancora stati messi in vendita o serviti al pubblico, così come accertato durante l'indagine, ma anche la sola detenzione di prodotti alimentari mal conservati è bastata, secondo i giudici, a far scattare la responsabilità penale.

Invero, non stiamo parlando di un principio nuovo, ma questa pronuncia ribadisce con forza un principio importante: quando parliamo di salute e sicurezza dei consumatori, la legge non aspetta che il danno si verifichi

In questi casi, siamo di fronte ad un reato di pericolo, sicché si interviene prima, già in presenza di una condotta potenzialmente pericolosa, senza attendere che si possa verificare il danno.


- Responsabilità penale e sanzioni amministrative

Come anticipato in precedenza, questo tipo di comportamento configura, nel nostro ordinamento, un reato di pericolo, ossia il cattivo stato di conservazione degli alimenti è condotta penalmente rilevante senza che l'avventore di un bar, o il cliente di un ristorante si senta male a causa di cibo avariato o che il prodotto sia stato venduto. 

In termini più semplici, ai fini del reato è sufficiente la semplice detenzione del prodotto non conforme alle norme igienico-sanitarie per far scattare le conseguenze:

- Sul piano penale, il titolare dell’attività può essere denunciato e perseguito per violazione delle norme in materia di sicurezza alimentare;

- Sul piano amministrativo, spesso si affiancano sanzioni pesanti come multe, sequestri della merce e, nei casi più gravi, la sospensione temporanea o definitiva dell’attività.

E non è una questione puramente teorica. Gli accertamenti degli enti di controllo — come NAS, ASL e autorità sanitarie — sono frequenti e le sanzioni, quando si ravvisano irregolarità, non tardano ad arrivare.


- Bene per i consumatori: una tutela concreta

Per noi consumatori questa sentenza rappresenta una garanzia importante: il sistema di controllo pubblico funziona ed interviene prima che il rischio si concretizzi, impedendo che prodotti potenzialmente pericolosi arrivino nei banchi vendita o nei piatti dei clienti.

Ma ciò non è sufficiente, in quanto anche il consumatore può (deve) contribuire a garantire che non siano messi in commercio alimenti scaduti ed avariati:

- Segnalare eventuali irregolarità ai NAS o all’ASL se nota situazioni sospette nei locali (ad esempio cattivo odore, prodotti mal conservati, condizioni igieniche scadenti).

- Verificare l’igiene dei locali prima di acquistare o consumare.

- Ricordare che la salute parte dalla prevenzione, non solo dalla repressione a danno ormai fatto.

In un contesto normativo come quello italiano, dove la tutela della salute è un valore costituzionale (art. 32 Cost.), non si può ragionare, dal profilo del venditore, in termini di "ci penserò dopo" o "tanto non lo vendo".

Cassazione penale - Sez. III^ - sentenza n. 22632/2025

domenica 17 agosto 2025

Cassazione: la notifica dell'atto fiscale deve rispettare la procedura della raccomandata informativa

Anche l'Agenzia delle Entrate Riscossione deve rispettare i limiti previsti dalla legge e seguire la procedura di notifica prevista ex lege.

Questa è la morale che si può desumere dalla lettura dell'ordinanza n. 14089 del 2025, provvedimento oggetto del nostro intervento odierno e mediante il quale la Corte di Cassazione è tornata a dare una risposta in merito alla  la validità delle notifiche degli atti impositivi, con particolare riferimento al meccanismo della consegna a persona diversa dal destinatario e al successivo invio della raccomandata informativa, previsto dall’art. 60, comma 1, lett. b-bis, DPR n. 600/1973.

Nel caso di specie, una società aveva proposto ricorso contro una intimazione di pagamento ricevuta dall'Agenzia delle Entrate-Riscossione, contestando, tra le altre, la nullità delle notifiche per mancata produzione delle raccomandate informative prescritte dalla normativa tributaria.

Notifica nelle mani di "persona di famiglia": quando è valida? 
l'obbligo di invio della raccomandata informativa (art. 60 D.P.R. 600/1973)

Occorre premettere che la vicenda oggetto dell'intervento degli Ermellini vede coinvolta una società, ossia una persona giuridica, e il quadro normativo si distingue  tra normativa generale civilistica e disciplina speciale tributaria.

Sul versante civilistico, l’art. 145 c.p.c. consente la notifica presso la sede legale o effettiva della società, con consegna dell'atto al rappresentante legale, alla persona incaricata o, in subordine, ad altra persona fisica qualificata, richiamando, ove necessario, le modalità ordinarie degli artt. 138, 139 e 141 c.p.c.

Se, però, si tratta di notifica di atti tributari, la normativa generale cede il passo alle specifiche norme previste in tale materia, ed in particolare l'art. 60 del D.P.R. n. 600 del 1973.

La norma in parola ha subito una sostanziale modifica nel 2006 (art. 60, comma 1, lett. b -bis), con la quale è stato previsto un onere aggiuntivo per il perfezionamento della notifica, ove l'atto venga consegnato a soggetti diversi dal destinatario (es. persona di famiglia, addetto alla casa): la notifica deve essere integrata dall'invio della c.d. raccomandata informativa.

Tale adempimento non ha carattere meramente formale o accessorio, ma costituisce elemento strutturale e indefettibile ai fini della validità della notificazione. Non è quindi sufficiente la sola spedizione dell’atto, ma occorre che sia documentalmente provata tanto la spedizione quanto la ricezione della raccomandata informativa da parte del destinatario. In assenza di tale adempimento, la notifica deve considerarsi non perfezionata.


- Cassazione - l'Agenzia delle Entrate deve inviare la raccomandata informativa

La Suprema Corte, con motivazione estremamente dettagliata, ha operato una netta distinzione:

  • per le cartelle notificate nel 2004, ha escluso l’obbligo della raccomandata informativa, trattandosi di notifiche antecedenti alla modifica normativa del 2006;
  • per gli avvisi di intimazione del 2008, ha ritenuto invece essenziale la produzione della raccomandata informativa, atteso che, in caso di consegna dell’atto a persona diversa dal destinatario (nel caso di specie, un addetto alla casa), la normativa tributaria vigente già prevedeva tale adempimento a pena di nullità.

La Cassazione ha così cassato la sentenza della Commissione tributaria regionale del Lazio, rinviando al giudice di merito per verificare se vi sia agli atti valida prova dell’avvenuto invio e ricezione delle raccomandate informative per gli avvisi di intimazione notificati nel 2008.

La decisione ribadisce un principio ormai consolidato, ma spesso trascurato nella prassi: la notificazione fiscale a persona diversa dal destinatario richiede sempre l'invio della raccomandata informativa, la cui omissione determina la nullità della notifica stessa.

Qui di seguito, il provvedimento n. 14089/2025 della Cassazione (Visibile con browser Opera - VPN attivo).

domenica 13 luglio 2025

Condomino moroso - l'amministratore responsabile se non comunica il nominativo al creditore

Nuovo intervento della Suprema Corte in materia di debiti condominiali, con il quale il giudice di legittimità ha ribadito l'obbligo dell'amministratore di comunicare al terzo creditore il nominativo dei singoli condomini morosi.

Abbiamo già avuto modo di trattare la questione (approfondisci qui), chiarendo i presupposti fondamentali per i quali il creditore deve reclamare il proprio credito prima verso il condomino moroso, e solo successivamente può agire verso coloro che sono in regola.

La sentenza in oggetto evidenzia, in primo luogo, l’obbligo di comunicazione ai sensi dell’art. 63 disp. att. c.c., gravante sull'amministratore, il quale deve indicare i condomini morosi, i millesimi e i dati catastali, riaffermando un orientamento già consolidato in giurisprudenza (vedi qui). 

I giudici chiariscono che tale obbligo legale di cooperazione grava direttamente verso l’amministratore in proprio e non rientra tra le funzioni rappresentative svolte in nome del condominio.

Ne consegue che la violazione del suddetto obbligo configura una responsabilità extracontrattuale (aquiliana) e la legittimazione passiva spetta all’amministratore persona fisica, non al condominio.

Il provvedimento è interessante perché chiarisce l'iter che deve essere seguito dal terzo creditore verso il condominio, identificando le conseguenze nel caso di inadempimento dell'obbligo di comunicazione dei creditori morosi da parte dell'amministratore.

In tali circostanze, non è il condominio a rispondere dell'inadempimento dell'amministratore, ma quest'ultimo in prima persona sarà chiamato a pagare per la sua negligenza.

La sentenza tende a valorizzare i condomini in regola con i pagamenti, i quali non possono essere dal creditore finché non siano stati escussi i morosi.

Corte di Cassazione Sez. II^ sentenza n. 1002/2025

domenica 6 luglio 2025

Sanzionato il negozio se in vetrina il prodotto è privo di prezzo

 La Corte di Cassazione ha confermato un principio fondamentale per tutti i consumatori:

"il prezzo di ogni prodotto esposto al pubblico deve essere chiaramente visibile"

Ed invece, accade che guardando una vetrina vediamo i capi, ma non sempre compare il prezzo di vendita, oppure c'è il cartellino ma è nascosto il prezzo.

Ed il caso sottoposto alla Suprema corte parte da un controllo della Guardia di Finanza in una nota boutique, ove viene riscontrato che i prezzi dei capi erano nascosti dentro le tasche dei vestiti o chiusi nelle borse.

A seguito del controllo, l'Amministrazione comunale eleva una sanzione amministrativa di oltre euro 1.000,00, provvedimento che viene impugnato dal venditore che si rivolge al Giudice di Pace, il quale annulla il provvedimento comunale.

A seguito di impugnazione avanti al Tribunale, che ribalta la decisione, la vicenda finisce infine alla Cassazione, la quale ha dato ragione all’amministrazione: il prezzo deve essere ben visibile, non solo “presente”.

La Cassazione richiama la normativa, in primo luogo, l’art. 14 del D.lgs. 114/1998, norma che prevede che ogni prodotto in vendita deve riportare il prezzo in modo chiaro e immediatamente visibile al pubblico.

Tale norma trova applicazione anche per i negozi self-service: se il cliente può toccare il prodotto, il prezzo deve essere ancora più facilmente percepibile.

Come evidenzia il giudice di legittimità, tale regola trova applicazione anche ai negozi "del lusso", i quali non si possono sottrarre all'obbligo di chiara esposizione del prezzo: 

E noi facciamo nostro l'insegnamento dei giudici e diciamo: “La trasparenza vale per tutti. Non esistono deroghe per il lusso.

Ma quali sono i diritti del consumatore?

Questa sentenza ribadisce un concetto chiave: nessuno può vendere un prodotto nascondendo il prezzo.

Si tratta di una tutela essenziale, che garantisce:

  • Scelta libera e consapevole
  • Parità di trattamento tra clienti
  • Prevenzione di pratiche commerciali scorrette

Cosa fare quando il prezzo non è visibile?

Il consumatore può adottare i seguenti comportamenti:

  • Chiedi spiegazioni al personale
  • Se non ti mostrano il prezzo, puoi rifiutarti di acquistare.
  • Documenta l’irregolarità (Una semplice foto del prodotto privo di prezzo può bastare).
  • Segnala l’abuso alla Polizia Municipale (Ufficio Commercio del Comune) oppure all’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato (AGCM)

Quali norme devono essere tenute in considerazione?










Corte di Cassazione - Sez. II^ Civ. sentenza n. 14286/2025 (visibile con browser Opera - VPN attivo).

domenica 29 giugno 2025

Attenti al giudice competente.....le clausole contrattuali possono prevedere un inganno

A volte bisogna prestare attenzione quando si vogliono utilizzare, con una certa disinvoltura, le norme di protezione dei consumatori, perché si potrebbe incorrere in gravi difficoltà, come accaduto nel caso oggetto della nostra riflessione domenicale.


1. Il caso

Con ordinanza n. 11500/2025, la Corte di Cassazione è intervenuta in materia di contratti bancari stipulati da consumatori, pronunciandosi sul giudice competente a decidere la controversia, valutando la questione relativa alla competenza territoriale, in presenza di una clausola contrattuale che stabiliva il foro esclusivo coincidente con la residenza del consumatore.

Il caso trae origine da un'azione promossa da due consumatori baresi contro una banca per violazioni in materia di intermediazione finanziaria, con istanza di risoluzione contrattuale e restituzione del capitale investito. 

Il Tribunale di Bari ha declinato la propria competenza in favore del Tribunale di Campobasso, richiamando una clausola del contratto ove viene indicato, quale giudice competente, il giudice molisano, ove risiedono i consumatori.

I ricorrenti hanno impugnato il provvedimento, sostenendo la facoltà del consumatore attore di derogare al foro esclusivo ex art. 33 D.lgs. 206/2005, in favore del Tribunale di Bari.


2. La decisione

La Corte ha rigettato il ricorso, riaffermando la validità della clausola contrattuale che prevedeva la competenza esclusiva del foro di Campobasso, coincidente con la residenza dei consumatori, proponendo il seguente precorso argomentativo.

Il giudice di legittimità ha chiarito che la deroga unilaterale del consumatore al foro di cui all’art. 33 Cod. Cons. è possibile solo in assenza di una pattuizione specifica, e ha affermato che, se il foro pattuito coincide con quello di residenza del consumatore, la clausola non è vessatoria (art. 33, co. 2, lett. u), Cod. Cons.), a condizione che sia munita di doppia sottoscrizione.

La pronuncia si colloca nel solco della giurisprudenza che distingue il foro del consumatore ex lege da quello pattizio convenzionalmente stabilito a suo favore. L’art. 33 Cod. Cons. tutela il consumatore da clausole che impongano un foro diverso da quello di residenza, salvo che la scelta delle parti non alteri l’equilibrio contrattuale.

L’orientamento già espresso da Cass. 19061/2016 e 12541/2022 – secondo cui il consumatore può rinunciare al foro esclusivo agendo avanti ad altro giudice – non si applica nei casi in cui il foro coincidente con la residenza sia frutto di pattuizione contrattuale il foro del consumatore può essere derogato dal consumatore stesso solo ove manchi una clausola pattizia vincolante, che preveda una competenza esclusiva coincidente con la sua residenza”.


Corte di Cassazione - Ordinanza n. 11500/2025 (visibile con browser Opera - VPN attivo).

domenica 15 giugno 2025

Che sia vero risarcimento se Poste Italiane ritarda la consegna (non solo il costo del francobollo)

Il provvedimento oggetto di questo nostro commento riguarda di Poste Italiane e cosa si può ottenere, come risarcimento, nel caso del ritardo nella consegna.

La Corte di Cassazione, con l’ordinanza n. 8070/2024, ha segnato un punto fermo nella eterna battaglia tra l'ex monopolista del servizio postale e gli utenti: se una spedizione arriva in ritardo e causa un danno, Poste Italiane non può cavarsela con il solo rimborso del costo della spedizione (come i famosi 9 euro del “Posta Celere”), ma deve risarcire il danno reale, se dimostrato e prevedibile.

Occorre premettere che il caso sottoposto all'attenzione degli Ermellini è estremamente particolare, in quanto riguardava un’offerta per una gara d’appalto arrivata in ritardo proprio a causa del disservizio postale. 

La società mittente, rimasta esclusa nonostante la sua fosse l’offerta migliore, ha citato in giudizio Poste chiedendo i danni per il ritardo nella consegna. Quest'ultima si è difesa, tra l'altro, invocando le varie clausole limitative della responsabilità. 

La vicenda è terminata in Cassazione, la quale ha detto NO: quelle clausole sono nulle, perché in contrasto con principi costituzionali e con la parità tra utenti e gestori del servizio.

Cosa significa per i consumatori?

Se una società pubblicizza un servizio - "veloce e garantito"-  nel caso di malfunzionamento, i diritti dei consumatori devono essere tutelati in modo più efficace. Poste Italiane non può limitarsi a restituire il prezzo pagato, ma deve rispondere dei danni.

Una vittoria per il principio della responsabilità vera e non solo simbolica, a tutela di chi si affida – in buona fede – a servizi essenziali.

Corte di Cassazione III^ Sez. Civ. Ordinanza n. 8070/2024 (visibile con browser Opera - VPN attivo).

domenica 8 giugno 2025

Acquisto di auto con leasing: ricordatevi di controllare quanti sono i precedenti proprietari del veicolo

Il provvedimento oggetto del nostro commento domenicale è finalizzato a dare un consiglio a chi acquista un veicolo usato, anche sottoforma di leasing finanziario.

Invero, con l'ordinanza del 14 dicembre 2023, la Suprema Corte ha offerto un chiarimento rilevante in tema di leasing finanziario, ribadendo un orientamento giurisprudenziale ormai consolidato ma ancora spesso frainteso nella prassi contrattuale e nei contenziosi tra consumatori, intermediari finanziari e fornitori.


    a.- Come funziona il contratto di leasing finanziario

Nel contrato di leasing finanziario, il consumatore conclude un accordo con il quale diviene utilizzatore del veicolo per un periodo di tempo, dietro il versamento di un canone periodico, con la possibilità, in seguito, di diventare proprietario dell'auto, dopo aver pagato una somma prestabilita. 

La Suprema Corte, con il provvedimento oggetto di segnalazione, ha confermato l'orientamento giurisprudenziale secondo il quale in questa fattispecie non siamo di fronte ad un contratto trilaterale (concessionario - società di leasing - consumatore/utilizzatore), bensì un insieme di due contratti bilaterali e distinti, ma funzionalmente collegati.

In particolare, abbiamo:

  •  un contratto di leasing tra la società di leasing e il consumatore con il quale la prima concede il godimento del bene (utilizzo) dietro il pagamento di un canone periodico;
  • Il contratto di compravendita tra la società finanziaria e la concessionaria.

Solo nel caso di acquisto finale del veicolo, vi sarà il trasferimento della proprietà verso il consumatore.

Vi ricordiamo che non è obbligatorio che sia la concessionaria a proporvi il contratto di leasing, attraverso un loro finanziatore di fiducia, potendo lo stesso consumatore rivolgersi ad altri operatori di mercato (anche la propria banca) e negoziare le condizioni contrattuali.

Come sottolineato dalla Cassazione, l'elemento centrale in questo rapporto contrattuale deve essere individuato nell'“adiectus solutionis causa” (cioè destinatario/consumatore dell’effetto utile dell’obbligazione, seppure estraneo al rapporto giuridico di compravendita).

Ne consegue che l'utilizzatore (il consumatore) sopporta il rischio del bene sin dalla consegna, pur non essendo formalmente parte del contratto di acquisto, e ciò giustifica una particolare attenzione in chiave di tutela del consumatore, specie per quanto riguarda vizi del bene, sua conformità e adeguatezza all’uso pattuito.


    b. Tutela del consumatore e trasparenza informativa

Nel caso di contratto di leasing avente ad oggetto un acquisto di un veicolo usato, assumer rilievo l’informazione precontrattuale, nonché della trasparenza sullo stato e sulla storia del bene oggetto della locazione.

Vi ricordiamo che vigono, anche in questo caso, le norme generali di correttezza e buona fede (artt. 1175 e 1375 c.c.) e la disciplina prevista in materia di pratiche commerciali scorrette (artt. 20-23 Codice del Consumo), nonché la normativa sul credito ai consumatori, ove applicabile (D.lgs. 141/2010 e ss.) (per alcuni suggerimenti per l'acquisto di un auto usata, clicca qui).

Uno degli aspetti più importanti, quando si parla di acquisto di veicolo usato, è la conoscenza dei precedenti utilizzatori dell'automobile, elemento che discrimina sotto il profilo del valore del bene.

Occorre premettere che non esiste un obbligo da parte del concessionario di comunicare il  numero di precedenti intestatari del veicolo (bene spesso oggetto di leasing), ma può rilevare ove taciuta dolosamente, ovvero quando il veicolo viene presentato - magari con slogan pubblicitario - vantandone come una specifica caratteristica del bene (es. definizione come “unico proprietario”, “pari al nuovo” ecc.).

Nel caso di non corrispondenza del messaggio pubblicitario con il reale stato del veicolo, tale condotta può essere oggetto di richiesta di risarcimento danni o riduzione del prezzo.

Ma il consumatore può autonomamente controllare quali sono i precedenti utilizzatori?

E' possibile ottenere una visura del veicolo oggetto di acquisto attraverso l'ACI al costo di euro 6.00, (attraverso il versamento via pagoPa) secondo le seguenti modalità:

  • VISURENET servizio online accessibile dal sito ACI (clicca qui)
  • ACI Space, l'APP per IOS e Android: costo € 6,00;
  • Delegazioni ACI e Agenzie di pratiche auto in possesso dell'autorizzazione provinciale (L. 264/1991) oltre l'eventuale commissione richiesta dall'intermediario.

Il provvedimento della Cassazione focalizza la propria attenzione sul rapporto contrattuale che si crea con il leasing finanziario, ma ci consente anche di tornare a trattare le questioni relative all'acquisto, anche con il leasing finanziario, di un'automobile usata.

Con il leasing viene rafforzata la necessità di una maggiore responsabilizzazione informativa del concedente e del fornitore del bene, specie nei confronti del consumatore, che si trova ad assumere rischi tipici della proprietà (vizi, malfunzionamenti, svalutazione) senza averne i diritti pieni, almeno fino all’eventuale riscatto.

Di seguito, il provvedimento della Suprema Corte (visibile con browser Opera - VPN attivo)

domenica 11 maggio 2025

La Cassazione dice basta al fideiussore/consumatore - abusiva la clausola di rinuncia ex art. 1957 c.c.

La Cassazione torna sulla questione relativa al prestatore di fideiussione, il quale deve ottenere tutte le tutele previste dal Codice del consumo, laddove non sia un professionista (vedi anche qui).

Con l’ordinanza n. 27558/2023, la Terza Sezione Civile della Cassazione ha deciso di affrontare la questione relativa alla clausola contenuta nei contratti bancari di fideiussione e che contiene una deroga all’art. 1957 c.c..

E' noto, infatti, che i modelli dei contratti bancari prevedono la dichiarazione di rinuncia del fideiussore alla "rinuncia" al termine semestrale previsto ex art. 1957 c.c. consentito al creditore per agire verso il debitore principale, presupposto per l'azione verso il fideiussore.

Trattasi di una clausola standard, la cui deroga limita fortemente il fideiussore, al quale viene preclusa una forma di tutela prevista dal codice civile, ossia quella di vedere estinta la propria garanzia se il creditore non si attiva in tempo.

La Suprema Corte ha ritenuto di tutelare il fideiussore, laddove sia qualificabile come consumatore, considerando vessatoria la clausola che preveda la rinuncia al 1957 c.c.

Ma chi è il fideiussore-consumatore?

Si tratta, nella maggioranza dei casi, di un parente che presta la firma per aiutare un debitore originario, ma che non opera in modo professionale, ovverosia presta la garanzia per ragioni estranee alla propria attività economica o professionale.

Ed in tutte queste circostanza, la clausola contrattuale che priva il fideiussore-consumatore del termine di cui all’art. 1957 c.c., senza specifica trattativa individuale, è abusiva e quindi nulla, ex art. 33 Cod. Consumo così come chiarito dalla Cassazione: Una siffatta clausola si appalesa allora senz’altro deponente per l’assoggettamento del fideiussore ad una disciplina astrattamente idonea a configurare il significativo squilibrio a danno del consumatore di cui all’art. 1469 bis c.c., spettando peraltro al giudice di merito verificarne l’effettiva integrazione nel caso concreto avuto riguardo al tenore dello stipulato contratto, allorquando come nella specie tale clausola risulti non essere stata oggetto di specifica trattativa comportante l’esclusione dell’applicazione della disciplina di tutela in argomento, successivamente rifluita nel Codice del consumo (…)”

Corte di Cassazione - Sez. III^ Civ. Ordinanza n. 27558/2023 (visibile con browser Opera - VPN attivo)

domenica 4 maggio 2025

Tentata frode in commercio - Cassazione tutela il consumatore

Ci capita, di tanto in tanto, di proporre dei commenti a provvedimenti della Cassazione che, all'apparenza, esulano dalle tematiche affrontate con questo blog.

E' questo il caso, dove ci spingiamo a proporvi la sentenza n. 36684/2023 della Cassazione penale, provvedimento che affronta il reato di tentata frode in commercio.

La sentenza della Suprema Corte conferma la tutela anticipata del mercato e del consumatore che viene garantita attraverso il reato di frode in commercio e quello del tentativo di frode e quindi, utilizziamo questo provvedimento anche per analizzare l'istituto previsto dal codice penale.


- Frode in commercio (art. 515 c.p.) e tentativo di reato

Il reato di frode nell’esercizio del commercio, previsto all’art. 515 del codice penale, punisce chi, nell’esercizio di un’attività commerciale o in uno spaccio aperto al pubblico, consegna all’acquirente una cosa diversa da quella dichiarata o pattuita per origine, provenienza, qualità o quantità. 

La finalità della norma è quella di tutelare la correttezza dei rapporti commerciali e, indirettamente, anche gli interessi dei consumatori, garantendo loro che le informazioni ricevute all'atto dell'acquisto di un bene corrispondano alla realtà.

Il tentativo di reato consiste in ogni condotta che sia finalizzata a porre in essere il reato, senza che questo, però, si perfezioni.


- La vicenda

Nel caso di specie, l'accusa mossa verso l'imputato è quella di, in concorso con altri, aver modificato e sofisticato vini (utilizzando sostanze vietate come cisteina, acido solforico, sale rosa ecc.). Il prodotto alterato è stato, in seguito, custodito presso i propri magazzini dell'azienda agricola, avviando l'attività di imbottigliamento per la successiva vendita ai consumatori. 

La difesa dell'imputato ha contestato l'accusa sollevata, affermando che il reato non si sarebbe mai configurato, in quanto il vino alterato non era stato ancora posto in commercio, ma solo stoccato in cantina. Tale carenza esclude sia il reato di frode che quello di tentativo di frode in commercio.


- La Cassazione

La Corte di Cassazione ha respinto le difese svolte dall'accusato, che ai fini della configurazione del tentativo di frode in commercio è sufficiente la detenzione nel magazzino del vino alterato, con le false indicazioni di provenienza e qualità. 

Tale condotta è sufficiente a rappresentare in modo idoneo ed univoco, l'intenzione dell'autore di immettere nel commercio il prodotto, risultando del tutto irrilevante che vi sia un effettivo il contatto con il consumatore o l'esposizione per la vendita, soprattutto nelle vendite all'ingrosso, ai fini dell'integrazione del tentativo di frode.

La mera detenzione del prodotto alterato, quindi, è sufficiente a determinare il reato di tentata frode in commercio, rappresentando la volontà dell'autore del reato di voler porre in essere la condotta sanzionata sotto il profilo penale.

E' evidente che l'applicazione di questa norma garantisce la tutela preventiva in favore del consumatore, in quanto il comportamento incriminato non inizia solo al momento della vendita, ma anche prima, nella fase di preparazione e stoccaggio dei beni destinati al mercato. Questo principio amplia l’area della protezione legale dei consumatori (ma anche dei venditori onesti) contro le frodi.

Sotto altro profilo, la sentenza rappresenta un ulteriore esempio di tutela della qualità e della trasparenza delle informazioni fornite al consumatore: il vino sofisticato contiene  sostanze vietate e mina, nel medio/lungo termine, la fiducia dei consumatori, danneggiando il mercato.

Cassazione Penale - sentenza n. 36684/2023. (visibile con browser Opera - VPN attivo)

domenica 27 aprile 2025

La Cassazione torna sulla definizione di consumatore nel trading on line

Con l’ordinanza oggetto del nostro commento, le Sezioni Unite della Corte di Cassazione sono intervenute al fine di ribadire la definizione di consumatore nei contratti di trading online e la conseguente validità delle clausole di proroga della giurisdizione in favore di fori esteri.


- La vicenda: contratti conclusi con società estere - deroga alla giurisdizione italiana

La vicenda sottoposta alla decisione della Suprema Corte riguarda un contratto di trading on line concluso tra un consumatore italiano ed una società cipriota e che prevede, tra le varie clausole, la deroga al giudice italiano in favore di quello di Cipro. 

A seguito di alcune contestazioni sollevate dal consumatore, quest'ultimo ha convenuto in giudizio la società avanti al giudice italiano (Tribunale di Avellino), ma la società si è costituita sollevando l'eccezione di carenza di giurisdizione richiamando la norma contrattuale che, a detta del professionista, derogherebbe la normativa UE in materia di un contratto “concluso da consumatore”.


- La qualificazione del consumatore - conseguenze

Il Giudice di legittimità ha voluto ricordare i principi che regolano tale materia, riaffermando che la qualifica di consumatore dipende dallo stato soggettivo all'interno del quale opera il contrante e non dalla condotta tenuta dal soggetto contrattuale.

Richiamando il Regolamento CE 44/2001 (norma in seguito sostituita), gli Ermellini hanno ricordato che l’articolo 15, § 1, lett. c) precisa che "[...] la competenza in materia di contratti conclusi da una persona, il consumatore, per un uso che possa essere considerato estraneo alla sua attività professionale. Tale disciplina opera in tutti i casi in cui il contratto sia stato concluso con una persona le cui attività commerciali o professionali si svolgono nello Stato membro in cui è domiciliato il consumatore o sono dirette, con qualsiasi mezzo, verso tale Stato membro o verso una pluralità di Stati che comprende tale Stato membro, purché il contratto rientri nell'ambito di dette attività.". 

Il successivo articolo 16 dispone che l'azione del consumatore proposto verso il professionista può essere introdotta davanti al giudice ove lo stesso è domiciliato, non trovando applicazione eventuali deroghe contrattuali al presente principio.

La Corte ha richiamato la giurisprudenza della CGUE, in particolare la sentenza Petruchová (C-208/18), secondo la quale nemmeno il coinvolgimento in operazioni speculative esclude automaticamente la qualifica di consumatore, prevalendo l'aspetto soggettivo: chi opera come consumatore, può giovarsi della normativa di tutela in qualsiasi situazione.

Nel caso di specie, l'investitore non ha agito quale operatore qualificato, e rientrando tra i consumatori che agiscono per finalità personali, indipendenti da attività professionali, può giovarsi delle norme previste in suo favore.

Cass. SSUU Ordinanza n. 25954/2024 (visibile con browser Opera - VPN attivo)

domenica 30 marzo 2025

Nessun obbligo di mediazione per le polizze fideiussorie

Questa domenica segnaliamo il recente provvedimento con il quale la Cassazione, dando seguito al suo orientamento, ha escluso l'obbligo di mediazione civile previsto dall’art. 5 del D.lgs. 28/2010 per le controversie aventi ad oggetto una polizza fideiussoria. 

La Corte di Cassazione ha chiarito che la polizza fideiussoria non rientra nelle categorie di contratti per cui la mediazione è condizione di procedibilità, confermando un'interpretazione restrittiva del concetto di "contratti assicurativi, bancari e finanziari", escludendo da questa categoria la polizza.

La Cassazione ha richiamato precedenti sentenze (Cass. 31209/2022, Cass. 12883/2021) che già escludevano l’obbligo di mediazione per contratti che, pur avendo una funzione economica affine a quelli bancari, non rientrano formalmente in tale categoria, come ad esempio i leasing immobiliari e convenzioni di assegno bancario.

Quale implicazione pratica rispetto a questo orientamento? il consumatore può agire in giudizio senza dover esperire un tentativo di mediazione civile e, sotto altro profilo, viene ribadito il principio secondo il quale la polizza fideiussoria va distinta dai contratti bancari e assicurativi.

Corte di Cassazione - Sez. III^ Civ. Ordinanza n. 1791/2025 (visibile con browser Opera - VPN attivo).

domenica 23 marzo 2025

La Cassazione chiarisce quando un mutuo condizionato può essere titolo esecutivo

Questa domenica vi segnaliamo la recente sentenza pronunciata dalle Sezioni Unite della Corte di Cassazione che ha risolto una questione relativa al contratto di mutuo (condizionato) e la sua configurabilità come titolo esecutivo mediante il quale la banca può procedere con una azione esecutiva verso il debitore.


- Premessa: contratto di mutuo e titolo esecutivo

L'art. 474 c.p.c. dispone, in generale, che tra i titoli esecutivi rientra anche il mutuo, permettendo alla banca di poter agire in via esecutiva vero l debitore, nel caso in cui quest'ultimo non adempia all'obbligo di rimborso.

Sotto questo profilo, la banca ha un enorme vantaggio, in quanto è sufficiente che il mutuatario non paghi alcune rate per poter agire nei suoi confronti, in modo automatico e senza un accertamento preventivo.

Questo principio, però, ha incontrato una limitazione da parte della Cassazione, chiamata a decidere un caso particolare, ossia il caso in cui il contratto di mutuo sia sottoposto a delle condizioni.


- Limiti all'azione della banca: le questioni

Il caso sottoposto all'attenzione della Cassazione prende avvio dall'azione esecutiva avviata dalla banca verso un mutuatario che non aveva pagato alcune rate del mutuo.

Il contratto, però, era particolare in quanto aveva previsto un vincolo cauzionale infruttifero della somma somma erogata dall'istituto di credito al mutuatario, con obbligo della banca di svincolarla solo al verificarsi di determinate condizioni. 

Con l'opposizione all'esecuzione, il cliente ha eccepito che il mutuo potesse essere considerato titolo esecutivo, in quanto il debito non sarebbe stato attuale ed esigibile prima dello svincolo.

Le questioni oggetto di disamina da parte della Corte di Cassazione sono:

1.- Il contratto di mutuo è sempre un titolo esecutivo?

2.- Nel caso in cui la somma oggetto di mutuo sia vincolata ad un deposito/pegno, la somma è immediatamente disponibile per il beneficiario e sorge, di conseguenza, il suo obbligo alla restituzione verso la banca (presupposto per l'azione esecutiva)?

3.- Un ulteriore punto oggetto di riflessione della Suprema Corte riguarda l'esigenza di un ulteriore atto (come un atto pubblico o una scrittura privata autenticata) per attestare lo svincolo e rendere il mutuo esecutivo: è necessario?


- Cassazione Sezioni Unite n. 5968/2025

La Suprema Corte ribadisce, in primo luogo, che il mutuo è un titolo esecutivo, ma solo se il mutuatario riceve la somma oggetto di contratto ed assume, in modo chiaro ed inequivocabile, l'obbligo di restituire la somma all'istituto erogante.

Il mutuo è un titolo esecutivo anche laddove la somma sia vincolata in un deposito irregolare o in pegno presso la banca, sempreché rimanga chiaro l'obbligo del mutuatario di restituire la somma al creditore.

Ne consegue, che il mutuo può costituire titolo esecutivo immediato, senza la necessità di un ulteriore atto finalizzato allo svincolo del deposito: non può essere considerato titolo esecutivo solo il contratto di mutuo ove le parti abbiano inserito una clausola con espressa esclusione dell’obbligo incondizionato di restituzione della somma.

L'effetto immediato della pronuncia della Cassazione è quello di rafforzare la posizione delle banche, consentendo alle stesse di avviare azioni esecutive senza necessità di ulteriori atti, anche quando il mutuo è accompagnato da clausole di deposito vincolato.

Sotto altro profilo, la sentenza SSUU 5968/2025 contribuisce a chiarire un nodo interpretativo per questo tipo di rapporti bancario, estendendo la qualità di titolo esecutivo anche a contratti di mutuo che prevedano vincoli accessori.

Di seguito, la sentenza n. 5968/2025 della Cassazione (visibile con browser Opera - VPN attivo).

domenica 9 marzo 2025

Mutuo tasso variabile - omessa indicazione del divisore - nullità clausola interessi - ricalcolo ex art. 117 TUB

Questa domenica torniamo a trattare i rapporti tra banca e clienti ed in particolare il diritto che questi ultimi hanno di una chiara pattuizione delle condizioni contrattuali, ed in particolare nell'ipotesi di contratto di mutuo.

La Cassazione ha, infatti, ribadito un principio fondamentale, ossia che nel caso in cui il contratto non risultino i vari costi dovuti alla banca esposti in modo chiaro e trasparente, può ben capitare che il cliente sia esonerato dal pagamento della somma pretesa dall'istituto di credito.

Il caso affrontato dalla Corte è abbastanza semplice e consiste in un contratto di mutuo a tasso variabile, ove la condizione contrattuale relativa al tasso di interesse ometteva la chiara indicazione del divisore (a 360 o 365) del tasso di interesse Euribor a tre mesi.

Dalla lettura del mutuo, quindi, non era chiaro se l'applicazione degli interessi dovesse avvenire considerando, quale divisore, 360 o 365.

Orbene, tale carenza ha reso, secondo la Cassazione, generico il tasso di interesse applicato dalla banca e non applicabile la clausola contrattuale al contratto di mutuo sottoscritto dai clienti.

La Cassazione ricorda, infatti, che "[...] affinché una clausola di determinazione degli interessi corrispettivi sia validamente stipulata ai sensi dell'art. 1346 c.c., è necessario che il saggio d'interesse, a differenza di quanto accaduto nel caso in esame, sia desumibile senza alcun margine di incertezza o di discrezionalità in capo all'istituto mutuante".

La banca, quindi, non può applicare quel tasso di interesse indicato nel contratto perché è generico e non determinato (o determinabile), con conseguente invalidità parziale del contratto. 

E quale tasso di interesse si applica? la Corte di Cassazione ricorda che nel caso di nullità della clausola relativa agli interessi, la banca deve applicare - seguendo un criterio integrativo - il tasso di interesse previsto dall'art. 117, comma 7, let. a) del TUB.

Cassazione Civile Sez. I^ Ordinanza n. 20801/2024.

sabato 25 gennaio 2025

Condomino moroso. Non è vero che paga sempre chi è in regola!

Oggi torniamo a trattare le questioni condominiali, con il fine di chiarire alcuni punti relativi all'ipotesi di spese condominiali, inadempimento nel pagamento della quota da parte del singolo condomino e dovere di solidarietà del condominio verso il credito vantato dal terzo.

QUESITO: cosa succede per le spese condominiali (ad esempio, quelle previste per il riscaldamento), se taluno dei condomini non versa la propria quota di competenza?   
 

Il luogo comune che si è consolidato, in modo errato, è che vi sia un vincolo di solidarietà tra i condomini per debiti contratti verso soggetti terzi, sicché  coloro che hanno correttamente versato le spese condominiali, dovranno pagare anche per gli insolventi.

Nel blog abbiamo già trattato la questione, ma alla luce delle mail ricevute, riteniamo utile tornare sull'argomento anche al fine di chiarire alcuni incomprensioni.

A.- cosa dice la legge: art. 63 disp. att. Codice Civile

L'argomento oggetto di questo intervento trova la sua disciplina nell'art. 63 delle disposizioni attuative del Codice Civile, norma che regola vari punti relativi alle spese condominiali, alla competenza nel pagamento e alle conseguenze nel caso di "condomino moroso".

Per quel che ci interessa, richiamiamo i primi tre commi dell'art. 63:

"Per la riscossione dei contributi in base allo stato di ripartizione approvato dall'assemblea, l'amministratore, senza bisogno di autorizzazione di questa, può ottenere un decreto di ingiunzione immediatamente esecutivo, nonostante opposizione, ed è tenuto a comunicare ai creditori non ancora soddisfatti che lo interpellino i dati dei condomini morosi.

I creditori non possono agire nei confronti degli obbligati in regola con i pagamenti, se non dopo l'escussione degli altri condomini.

In caso di mora nel pagamento dei contributi che si sia protratta per un semestre, l'amministratore può sospendere il condomino moroso dalla fruizione dei servizi comuni suscettibili di godimento separato.".

La legge prevede, in primo luogo, il dovere da parte dell'amministratore di attivarsi per ottenere un provvedimento ingiuntivo volto a riscuotere i crediti vantati dal condominio verso il singolo condomino "non pagante".

Il primo comma, però, ci dice anche un'altra cosa: nel caso di richiesta di pagamento al condominio da parte di un creditore e dovuta all'inadempimento delle spese condominiali da parte di uno o più codomini, l'amministratore deve fornire i nominativi dei condomini morosi.

Il motivo di questo obbligo posto a carico dell'amministratore lo troviamo nel comma successivo, laddove la legge stabilisce che se un esiste vincolo di solidarietà nel condominio per i debiti comuni, è altresì vero che lo stesso soggiace ad un limite di sussidiarietà.

In termini più semplici, il creditore che pretende il pagamento verso il condominio di un suo credito per l'omesso pagamento da parte di alcuni condomini, dovrà prima agire nei confronti dei morosi e poi, nel caso in cui il suo credito sia ancora non soddisfatto, potrà rivolgersi agli altri condomini.

E la differenza, sul punto, non è da poco!

La spiegazione ce la fornisce la Cassazione (Ordinanza n. 5043/2023):"in capo ai condòmini che abbiano regolarmente pagato la loro quota di contribuzione alle spese condominiali, ed in favore del terzo che sia rimasto creditore (per non avergli l’amministratore versato l’importo necessario a soddisfarne le pretese), un’obbligazione sussidiaria ed eventuale, favorita dal beneficium excussionis, avente ad oggetto non l’intera prestazione imputabile al condominio, quanto unicamente le somme dovute dai morosi" con la conseguenza che "[...] per le obbligazioni sorte dopo l’entrata in vigore della legge n. 220 del 2012, il debito sussidiario di garanzia del condomino solvente, subordinato alla preventiva escussione del moroso e pur sempre limitato alla rispettiva quota di quest’ultimo, e non invece riferibile all’intero debito verso il terzo creditore".

B.- Conseguenze pratiche

Cosa succede se il condominio non è riuscito a versare la somma prevista per il riscaldamento, a causa di un condomino moroso, e il creditore viene a chiedere il pagamento delle somme previste rivolgendosi all'amministratore?

Abbiamo già trattato l'argomento, a cui rimandiamo per un approfondimento (clicca qui), ma ricordiamo sinteticamente che in questo caso l'amministratore non può esimersi dal agevolare il recupero del credito da parte del terzo, fornendo ogni dato del condomino inadempiente, in primo luogo nominativo, importo non versato e dati catastali.

Il creditore dovrà prima cercare di recuperare quanto dovuto dal condomino insolvente e, solo nel caso in cui riesca a dimostrare di non aver recuperato la somma dal debitore parziale, potrà agire verso i restanti condomini.

domenica 12 gennaio 2025

Il mandato è concluso? no alla provvigione (clausola vessatoria)

Vogliamo vendere una casa e ci affidiamo ad una agenzia, incaricandola alla vendita dell'immobile.

Usualmente, il contratto prevede una specifica disposizione che prevede che nel caso in cui il cliente conclude la vendita, anche a mandato concluso, con una controparte messa in contatto dal professionista, quest'ultimo è comunque legittimato ad ottenere il pagamento della provvigione.

L'agente non trova nessuno che voglia acquistare il nostro immobile e decidiamo, in seguito, di concludere il rapporto contrattuale, trovando per altra via il nostro acquirente.

Siamo costretti a pagare la provvigione al mediatore? la clausola contrattuale che impone tale obbligo è valida o no?

Abbiamo già trattato, in un recente intervento, il tema del diritto dell'agente immobiliare ad essere pagato per la propria attività, laddove egli abbia messo in contatto le parti, anche nel caso in cui il mandato sia stato revocato (vedi).

In generale, il contratto di mandato richiesto dall'agenzia immobiliare include, tra le altre, la clausola con la quale l'agente impone al cliente di dovergli pagare la provvigione anche nel caso in cui il contratto di vendita si concluda dopo la conclusione del contratto.

Con questo tipo di clausola, il professionista si accaparra il cliente, anche nel caso di revoca del mandato: è possibile?

La Corte di Cassazione considera questo tipo di clausola valida, ma vessatoria/abusiva, in violazione degli artt. 1341 c.c. e degli artt. 33 - 34 del D. Lgs. n. 206/2005, nella parte in cui prevede l'obbligo di corresponsione della provvigione in favore del mediatore anche nel caso in cui la vendita si concluda successivamente all'interruzione del rapporto tra consumatore e professionista.

Nella sentenza viene ricordato che: "Il sistema di tutela istituito con la Direttiva 93/2013 si fonda sull'idea che il consumatore si trovi in una posizione di inferiorità nei confronti del professionista, sia per quanto riguarda il potere negoziale, sia per quanto riguarda il livello di informazione (v., in particolare, sentenza del 17 luglio 2014, Sánchez Morcillo e Abril García, C-169/14, EU:C:2014:2099).

La normativa speciale introduce, quindi, una specifica disciplina diretta ad appianare le disuguaglianze sostanziali fra soggetti titolari di poteri contrattuali differenti, integrativa della normativa codicistica, enucleando una forma di tutela privatistica differenziata su base personale, applicabile esclusivamente in ragione della qualifica soggettiva rivestita dalle parti contraenti.".

Gli artt. 33 e seguenti del Codice del Consumo introducono criteri generali di abusività delle clausole contrattuali, individuando altresì specifiche ipotesi di vessatorietà.

Nel caso di clausola vessatoria, il professionista può dimostrare di aver fatto aderire il consumatore alla clausola all'esito di una specifica trattativa individuale.

Nel caso della clausola che preveda l'obbligo al pagamento della provvigione anche dopo la conclusione del mandato, la Suprema Corte rileva che: "Detta clausola, che non rientra nell’ambito dell’elenco previsto dall’art.33 del Codice del Consumo, attribuisce il diritto al compenso del mediatore indipendentemente dalla prova dell’accordo tra la parte, che si è avvalsa della sua attività, ed il terzo che ha concluso successivamente l’affare.

La clausola implica una tacita proroga del vincolo contrattuale successiva alla scadenza dell’incarico, come previsto dall’art.1341 c.c., obbligando chi si sia avvalso dell’attività del mediatore a corrispondere la provvigione ogni qual volta il contratto sia concluso, dopo la scadenza dell’incarico, da qualunque soggetto lui legato da rapporti personali o familiari.".

La clausola tutela il mediatore e limita, in modo importante, il contraente debole (il cliente) che rimane, di fatto, legato all'agenzia immobiliare, configurandosi come dannosa per quest'ultima e potenzialmente abusiva.

Sul punto, la sentenza è chiara laddove evidenzia che: "In tema di mediazione, questa Corte, esaminando l’ipotesi di una clausola che attribuiva al mediatore il diritto alla provvigione anche in caso di recesso da parte del venditore, ne ha affermato la vessatorietà nelle ipotesi in cui il compenso non trovi giustificazione nella prestazione svolta dal mediatore, determinando un significativo squilibrio contrattuale tra le parti la clausola che riconoscere al mediatore l’importo pattuito a prescindere dall’attività svolta e dai risultati conseguiti. In tale ipotesi, è stato demandato al giudice di merito di valutare se una qualche attività sia stata svolta dal mediatore attraverso le attività propedeutiche e necessarie per la ricerca di soggetti interessati all'acquisto del bene".

Il compenso dell'agente immobiliare può trovare giustificazione solo se il risultato ricercato dal consumatore sia conseguenza dell'attività organizzata predisposta dal professionista, e deve essere considerata vessatoria la condizione contrattuale che prevede la provvigione in suo favore in assenza di qualsivoglia svolgimento di qualche prestazione in favore del cliente (vedasi anche qui).

Cassazione civile Sez. II^ - sentenza n. 785/2024 (visibile su browser Opera - vpn attivi).

domenica 29 dicembre 2024

Quando non è sufficiente seguire le linee guida: comunque responsabile il medico

La sentenza oggetto del nostro intervento odierno affronta l'argomento più trattato negli ultimi mesi in questo blog, ossia la responsabilità del medico per i danni occorsi al paziente.

Abbiamo trattato l'argomento sotto i diversi punti di vista, anche dal punto di vista penale, ossia laddove la condotta colposa del sanitario possa cagionare un evento mortale tale da configurare una sua responsabilità penale.

Come già trattato in altri nostri interventi, al fine di qualificare la condotta tenta dal medico occorre tenere in considerazione le azioni compiute dal professionista, lo specifico grado di rischio e le linee guida, buone prassi mediche previsti e responsabilità del medico nei casi caratterizzati da condizioni di rischio specifiche. 

La Cassazione ha osservato che le linee guida e le prassi, pur essendo strumenti necessari nell'attività medica, non hanno carattere vincolante e devono essere utilizzate in modo appropriato da parte del medico in relazione allo specifico caso.

Le linee guida, infatti, hanno carattere generale e possono risultare non adeguate alla risoluzione dello specifico caso, in particolare laddove questo presenti elementi di specificità e di rischio che il medico deve tenere in considerazione, anche ignorando le regole generali.

Nel caso di specie, la Corte ha voluto confermare la responsabilità penale del medico che, rinviato a giudizio ed in seguito condannato per omicidio colposo per non aver operato una corretta valutazione del quadro clinico della paziente, limitandosi a seguire le linee guida, senza predisporre adeguati e continui controlli della paziente.

Cassazione Penale - Sezione III^ - sentenza n. 40316/2024 (visibile con browser Opera - VPN attivo).

domenica 22 dicembre 2024

Multiproprietà e giudice competente. Vince il foro del consumatore

Quale giudice deve decidere le cause in materia di multiproprietà reale? quello del luogo ove è situato l'immobile o quello di residenza del consumatore?

La questione è stata affrontata e risolta dalla Corte di Cassazione con la sentenza n. 12630/2021, a cui si è rivolta una società commerciale chiedendo di dichiararsi la competenza del luogo ove è ubicato l'immobile invece di quello di residenza dei consumatori.

La società ha proposto ricorso, chiedendo l'applicazione dell'art. 23 cod. proc. civ., trattandosi di controversia avente natura "condominiale", cosicché ogni causa dovrebbe essere decisa dal giudice del luogo ove sono situati i beni comuni.

La Suprema Corte ha respinto tale tesi, in quanto deve prevalere il superiore principio di tutela dei consumatori anche sotto il profilo del tutela giudiziaria, aggiungendo che: "nei termini indicati si è già espressa la giurisprudenza di questa Corte (Cass. n. 8419 del 2019), e non vi sono ragioni per mutare indirizzo, senza dire che la qualifica di consumatore è stata riconosciuta all'intero condominio (Cass. 10679 del 2015), e che sul punto si è espressa di recente in senso favorevole la Corte di giustizia (sentenza 2 aprile 2020, C - 329 del 2019)".

In conclusione, anche quando si tratta di un diritto in multiproprietà immobiliare, tutte le controversie devono essere decise dal giudice ove sono residenti i consumatori.

Di seguito, Cassazione n. 12630/2021 (visibile con browser Opera - VPN attivo)

domenica 8 dicembre 2024

Acquisto casa - quando deve essere pagato il mediatore

Al giorno d'oggi, gran parte dei contratti di acquisto di un immobile viene concluso con la partecipazione decisiva del mediatore immobiliare, il quale deve essere pagato per la sua attività professionale.

Ma il professionista deve essere comunque pagato anche nel caso in cui il contatto tra le parti avvenga, in modo autonomo, a distanza di tempo?

Il quesito è stato risolto dalla Suprema Corte con l'Ordinanza n. 11443/2022 che potete leggere di seguito e che analizziamo con il nostro intervento odierno.

Quali sono i presupposti che giustificano il diritto da parte del mediatore a percepire gli emolumenti per la sua attività?

L'art. 1754 c.c. identifica l'attività del mediatore: "È mediatore colui che mette in relazione due o più parti per la conclusione di un affare, senza essere legato ad alcuna di esse da rapporti di collaborazione, di dipendenza o di rappresentanza.".

Il successivo art. 1755 c.c. chiarisce il presupposto dell'obbligo di pagamento della parcella del mediatore: "Il mediatore ha diritto alla provvigione da ciascuna delle parti, se l'affare è concluso per effetto del suo intervento. La misura della provvigione e la proporzione in cui questa deve gravare su ciascuna delle parti, in mancanza di patto, di tariffe professionali o di usi, sono determinate dal giudice secondo equità.".

Il mediatore può percepire la provvigione nel caso in cui l'affare sia concluso, ottenendo il pagamento di quanto dovuto ad affare concluso.

E cosa succede se le parti trovano l'accordo da soli e a distanza di tempo dal momento in cui sono stati messi in contatto dall'intermediario?

Il quesito è stato risolto dalla Suprema Corte di Cassazione con l'ordinanza n. 11443/2022 che potete leggere di seguito, avente ad oggetto l'attività di mediazione svolta da un agente in favore di alcuni consumatori.

Nel caso di specie, il professionista aveva fatto visitare l'immobile al potenziale acquirente, raccogliendo una sua proposta di acquisto sottoposta alla parte venditrice.

Quest'ultima rifiutava l'offerta ricevuta dalla controparte, salvo concludere in seguito l'accordo con il venditore in modo autonomo e senza il contributo dell'intermediario.

Il professionista si è rivolto al giudice chiedendo il riconoscimento della propria provvigione per aver messo in contatto le parti, così come previsto dal contratto.

La controversia è arrivata davanti alla Cassazione, la quale ha chiarito quali sono i presupposti che legittimano il mediatore immobiliare ad ottenere il pagamento della propria parcella, spiegando quale sia l'attività svolta dall'agente: "Il diritto del mediatore alla provvigione sorge tutte le volte in cui la conclusione dell'affare sia in rapporto causale con l'attività intermediatrice, pur non richiedendosi che tra l'attività del mediatore e la conclusione dell'affare sussista un nesso eziologico diretto ed esclusivo; è sufficiente, infatti, che, la "messa in relazione" delle stesse costituisca l'antecedente indispensabile per pervenire, attraverso fasi e vicende successive, alla conclusione del contratto".

Quindi, il diritto alla provvigione sorge per aver messo in contatto le parti, pur non intervenendo in tutte le fasi della trattativa, potendo configurarsi il diritto al pagamento da parte dei clienti anche solo per aver raccolto il nominativo della controparte e per aver partecipato ad un incontro fisico.

La Cassazione osserva che la pretesa del professionista sussiste nel momento in cui sia provato il suo intervento nella formazione della volontà di acquirente e venditore, partecipando in modo decisivo alla conclusione del contratto (si parla, in questi casi, di "antecedente necessario").

E' altresì pacifico che la prova dello svolgimento dell'incarico ricevuto ricade sul professionista, il quale deve documentare tutta l'attività svolta in favore dei clienti e il suo ruolo decisivo nella conclusione del contratto.

La Cassazione spiega come, nella vicenda oggetto del provvedimento, è stata data prova dell'esistenza del presupposto per il pagamento del mediatore, in quanto: "[...] l'acquisto del bene avvenne dopo soli due mesi dalla visita dell'immobile previo rilascio di bigliettini, da parte degli acquirenti, nelle cassette postali dei condomini, come riferito dai xxxx, soci della Caorle Beach 2000, proprietaria dell'immobile.

Ne consegue che l'affare trova il suo antecedente causale nell'attività della società mediatrice e che la ripresa delle trattative costituiva una prosecuzione dell'attività svolta, che si era conclusa con la messa in relazione delle parti e con la formulazione di una proposta di acquisto.".

Al contrario, se viene provato che non vi sia alcun collegamento tra l’attività del mediatore e la successiva conclusione dell’affare, e quindi la finalizzazione dell’affare sia indipendente dall'intervento del professionista, quest'ultimo non può pretendere nulla dal cliente.

Corte di Cassazione - Sez. II^ Civ. Ordinanza n. 11443/2022 (visibile con browser Opera - VPN attivo)

domenica 24 novembre 2024

Preliminare: il mancato pagamento di una rata non è inadempimento

Questa domenica affrontiamo una vicenda abbastanza ricorrente, ossia quando viene firmato un contratto preliminare di acquisto della casa, senza subordinare il definitivo all'ottenimento del mutuo e, in seguito, non si riesce ad onorare l'accordo perché la banca ha rifiutato di concedere il finanziamento o, come accaduto nella vicenda, ritardato il versamento della somma.

Il suggerimento che vi vogliamo dare, partendo dalla vicenda sottoposta alla decisione della Cassazione, è di inserire nel preliminare sempre una clausola risolutiva ove si subordina la conclusione del definitivo (rogito davanti al notaio) all'ottenimento del mutuo con la banca: "Le parti sottopongono il contratto preliminare alla condizione risolutiva, subordinando la firma del rogito notarile all'ottenimento, da parte del promissario acquirente, di un mutuo ipotecario entro il termine per il definitivo. Nel caso di rifiuto da parte dell'istituto di credito alla concessione del mutuo al promissario acquirente, il presente accordo viene mutualmente considerato privo di efficacia e risolto con restituzione di ogni eventuale somma anticipata a titolo di acconto o caparra.".

Nella vicenda affrontata dagli Ermellini, la promittente acquirente conveniva in giudizio la proprietaria dell'immobile al fine di ottenere la legittimità del recesso al contratto preliminare sottoscritto con restituzione del doppio della caparra.

Il preliminare prevedeva l'obbligo di pagamenti rateali della somma prevista prima della conclusione del rogito, con importi da versarsi a date prestabilite.

La promittente acquirente effettuava quasi tutti i versamenti, ma non avendo ricevuto in tempo utile un finanziamento, aveva richiesto alla controparte il rinvio della data per il rogito notarile, confermando la propria intenzione di pagamento di quanto previsto tra le parti.

Quest'ultima, costituitasi in giudizio, osservava che non era mai stato raggiunto alcun accordo sul rinvio della data, con conseguente inadempimento da parte dell'acquirente degli obblighi assunti con il preliminare.

I giudici di merito davano ragione alla promittente venditrice, ma la Cassazione ha ribaltato la questione, osservando che nella valutazione dell'eventuale inadempimento della promittente acquirente, si debba fare riferimento alla complessiva condotta tenuta dalle parti nella vicenda.

Il giudice di legittimità richiama, sul punto, l'orientamento sviluppato dalla giurisprudenza di legittimità, ossia: "il giudice non può isolare singole condotte di una delle parti per stabilire se costituiscano motivo di inadempienza a prescindere da ogni altra ragione di doglianza dei contraenti, ma deve, invece, procedere alla valutazione sinergica del comportamento di questi ultimi, attraverso un'indagine globale e unitaria dell'intero loro agire, anche con riguardo alla durata del protrarsi degli effetti dell'inadempimento, perché l'unitarietà del rapporto obbligatorio a cui ineriscono tutte le prestazioni inadempiute da ognuno non tollera una valutazione frammentaria e settoriale della condotta di ciascun contraente, ma esige un apprezzamento complessivo".

E il giudice di merito non ha operato, secondo la valutazione operata dalla Cassazione, un giudizio complessivo delle condotte al fine di verificare la sussistenza del presunto inadempimento lamentato dal promittente venditore.

"La Corte d’appello avrebbe dunque dovuto considerare che la ricorrente aveva unicamente chiesto un rinvio del pagamento di una parte del prezzo, profilo che attiene all’esecuzione del contratto (cfr. Cass. n. 525/2020) e si era detta disponibile a versare tale somma entro la data fissata per la conclusione del contratto definitivo.".

Corte di Cassazione Sez. II^ Civ. - sentenza n. 26313/2024  (visibile con browser Opera vpn attivo)

domenica 17 novembre 2024

Multiproprietà - valido il contratto che contiene informazioni trasparenti, chiare e complete

La Suprema Corte di Cassazione ha avuto modo, con la recente sentenza n. 25599/2023, di tratteggiare alcuni aspetti rilevanti che riguardano i contratti di acquisto di un diritto reale in multiproprietà, nonché i contratti vacanza a lungo termine.

Questo tipo di vicende sono oggetto di trattazione periodica in questo blog e quindi ci è sembrato corretto aggiornare l'orientamento della Cassazione in questa materia.

Questo tipo di contratti sono stati oggetto, negli ultimi anni, di diversi interventi giurisprudenziali che hanno dichiarato la nullità del contratto di compravendita di una multiproprietà reale o obbligatoria per violazione degli artt. 1418 e 1346 c.c., ossia per totale indeterminatezza dell'oggetto.

I documenti contrattuali, infatti, non indicano in modo chiaro  né l'oggetto del contratto, né il contenuto dei diritti/obblighi, prevedendo anche l'adesione ad un club straniero, non identificato e per un periodo molto lungo.

Molto spesso, i contratti non indicano non solo il tipo di titolo venduto, ma anche la sua legge di circolazione, e neppure i dati dell’associazione alla quale viene fatto riferimento, né la natura di tale iscrizione, rimandando ad altri documenti o ad un sito web.

La Cassazione, pur affrontando un caso di multiproprietà immobiliare, ha avuto modo di affrontare il fenomeno, chiarendo come la normativa (oggetto di una prima disciplina con la Direttiva 94/47/CE introdotta in Italia con il D. Lgs. 427/1998) è stata oggetto di un successivo intervento europeo (direttiva 2008/122/ce) attuato in Italia con D. Lgs. n. 79/2011.

La normativa del 2011 ha portato ad una sostanziale distinzione tra contratti di multiproprietà e vacanze a lungo termine, prevedendo medesime tutele, specialmente sotto il profilo informativo.

Il contratto avente ad oggetto la vendita di questi diritti vacanza deve essere redatto in modo chiaro e trasparente, contenendo informazioni complete, chiare ed obiettivamente comprensibili, al fine di consentire al contraente debole di valutare in modo informato le conseguenze connesse alla firma.

Sul punto, la Suprema Corte chiarisce che il contratto deve descrivere in modo chiaro gli “[…] aspetti fondamentali volti all’individuazione della stessa tipologia di contratto rispetto alle molteplici possibilità offerte dall’iniziativa privata e dal principio di libertà negoziale […] e che comportano l’esigenza di individuare in modo dettagliato l’oggetto del contratto e, soprattutto, i diritti e gli obblighi posti a carico delle parti.”  (Cassazione Civile Sez. II^ Sentenza n. 29599/2023).

Questa descrizione non può essere lasciata ad altri documenti o ad un sito web, ma deve essere esplicitata nel contratto principale firmato tra le parti.

Corte di Cassazione - Sez. II^ Civ. sentenza n. 25599/2023 (visibile con browser Opera VPN attivo)

Related Posts Plugin for WordPress, Blogger...